sabato 21 febbraio 2015

Jobs Act, il rischio di una Fornero-bis

Punta sul contratto a tutele crescenti, ma questa volta ci sono gli incentivi. Che però finiranno

Lidia Baratta

Matteo Renzi (Getty Images/Afp/Andreas Solaro)

Si chiama Jobs Act, con la “s”, al plurale. Ma la riforma del lavoro del governo Renzi alla fine punta su un solo contratto. Quello a tempo indeterminato a tutele crescenti. Approvato il decreto, si potrà assumere con la nuova formula dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Presumibilmente dal 2 marzo (visto il 1 marzo è domenica). Cocopro, cococo, associazione in partecipazione e job sharing verranno invece «rottamati». Il rischio che si tratti di una Fornero bis c’è, ma questa volta a convincere le aziende ad assumere ci sono anche i tagli ai contributi e una timida ripresa dell’economia.

«In Italia da molti anni è diventato normale assumere con tutte le tipologie contrattuali tranne che con il tempo indeterminato», ha detto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti in conferenza stampa. «Rovesciare questa modalità di pensiero è la nostra scommessa. Tutti quelli che devono assumere devono partire dall’idea di farlo con il tempo indeterminato». Un scommessa di non facile realizzazione, visto che oggi solo il 15% dei nuovi assunti è a tempo indeterminato e ben il 70% a termine.

Secondo il primo dei decreti approvati in via definitiva (qui il testo), la regola è che, in caso di licenziamento illegittimo, ci sarà un indennizzo monetario crescente in base all’anzianità di servizio da un minimo di quattro a un massimo di 24 mensilità. Il reintegro nel posto di lavoro rimane solo per i licenziamenti discriminatori e in una fattispecie limitata dei licenziamenti disciplinari, cioè solo quando il fatto materiale contestato è insussistente. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, dove la reintegra era la norma, non esiste più. La formula è valida anche per i licenziamenti collettivi, nonostante i pareri negativi delle Commissioni lavoro di Camera e Senato, e si applica pure a sindacati e partiti politici.

La maggiore flessibilità in uscita, insieme soprattutto agli incentivi previsti dalla legge di stabilità 2015 sui contributi nei primi tre anni di lavoro per i neoassunti (per un massimo di 8.060 euro all’anno), dovrebbe convincere gli imprenditori ad assumere a tempo indeterminato. «Parole come mutuo, ferie, buonuscita e diritti entrano nel vocabolario di una generazione che finora è stata esclusa», ha annunciato Renzi. E in effetti già dal 1 gennaio 2015, senza che fosse ancora valido il contratto a tutele crescenti, molti imprenditori hanno già approfittato dello sconto, e le assunzioni a tempo indeterminato sono aumentate. Anche se non si sa bene quanti fossero consapevoli di assumere con il vecchio articolo 18.

Davanti alla maggiore facilità di licenziamento, il modello di riferimento è quella della flexsecurity nordeuropea, cioè la sicurezza della tutela al di fuori del posto di lavoro. Per intenderci: in Danimarca un terzo dei lavoratori cambia occupazione una volta all’anno, grazie a una rete di tutele pubbliche e private. Ma al momento, da noi, le tutele sembrano poche. I nuovi ammortizzatori sociali (Naspi, Asdi, Dis-col) del secondo decreto approvato in via definitiva (qui il testo) non sono ancora interamente finanziati, come ha ammesso lo stesso governo. L’Agenzia unica per l’impiego, che dovrebbe riordinare i malfunzionanti centri per l’impiego, ancora è solo una promessa ed è legata alla riforma costituzionale del Titolo V. E il contratto di ricollocazione firmato da Ichino, con poco più di 80 milioni di euro a disposizione, servirà a fornire voucher a non più di 18mila disoccupati.

Sergio Marchionne a gennaio ha annunciato che con il Jobs Act assumerà a tempo indeterminato 1.500 persone nello stabilimento Fca di Melfi. «Ma li avremmo assunti comunque, con la formula dei contratti interinali, anche se non ci fosse stata la nuova legge», ha detto l’amministratore delegato. E in effetti bisognerà capire quanta sarà l’occupazione aggiuntiva, cioè assunzioni che non ci sarebbero state senza il Jobs Act e quante saranno invece le assunzioni da parte di aziende che lo avrebbero fatto comunque. Anche perché agli incentivi potranno attingere anche i datori di lavoro che vorranno convertire collaborazioni e contratti a tempo determinato dei dipendenti in tempo indeterminato. Lo ha detto lo stesso Renzi nella conferenza stampa di presentazione dei decreti: «Duecentomila italiani passeranno dai cocopro al lavoro a tempo indeterminato». E i primi dati sulla crescita del 23% del tempo indeterminato nella provincia di Milano lo confermano: il numero di lavoratori non cambia, cambia solo il contratto. Contratto che potrebbe non servire a diminuire la disoccupazione giovanile, visto che a parità di condizioni con le tutele crescenti un datore di lavoro potrà assumere un lavoratore esperto e più produttivo di un giovane alle prime armi.

«L’ipotesi», spiega Luca Failla, avvocato fondatore dello studio LabLaw ed esperto di diritto del lavoro, «è che ci sarà un travaso, ma non un incremento occupazionale. L’incremento ci sarà soprattutto nelle assunzioni a tempo indeterminato». Ma a tutele crescenti. Ed è qui che potrebbe venirsi a creare un altro dualismo, tra quelli che hanno l’articolo 18, perché assunti negli anni scorsi, e quelli che non ce l’hanno più. «Nella stessa azienda si troveranno due insiemi di lavoratori diversi, “ante Jobs Act” e “post Jobs Act”. E di questo probabilmente dovrà occuparsi la Corte Costituzionale».

Ma «puntare sul tempo indeterminato non significa per forza essere antichi», aggiunge Failla. «Anche perché è con il tempo indeterminato che si hanno investimenti nella formazione e nella crescita delle professionalità che con gli altri contratti non si fanno». E con lo spauracchio del tutele crescenti potrebbe anche esserci un aumento della produttività. Il problema «è che bisogna cambiare dall’interno il rapporto del contratto a tempo indeterminato, superando il concetto della verticalità dell’azienda in cui c’è chi comanda e chi obbedisce, inserendo il rendimento e gli obiettivi, con un contratto più adeguato a una realtà fatta di servizi e non solo di fabbriche».

Il passato invece dovrebbe essere del tutto archiviato per i contratti che durante questi anni sono stati anche sinonimo di abusi e precarietà: collaborazioni a progetto, associazioni in partecipazione e job sharing (il lavoro ripartito), che però riguarda poco meno di 300 persone. Dall’entrata in vigore del terzo decreto, per il momento ancora in prima lettura (qui il testo), non potranno più essere stipulati. E dall’1 gennaio 2016 alle «finte» collaborazioni si potranno applicare le norme del lavoro subordinato dopo il passaggio davanti a un giudice. «Costruire una riforma sulla centralità del contratto a tempo indeterminato significa non cogliere la molteplicità dei mestieri e delle professioni che si stanno sviluppando», ha commentato Emmanuele Massagli, presidente del think tank Adapt. «La cancellazione totale dei contratti di collaborazione a progetto non sembra la soluzione corretta, soprattutto in questa fase in cui è necessario un mercato del lavoro dinamico», spiega anche l’avvocato del lavoro Fabrizio Daverio. «I contratti a progetto rappresentano nel nostro Paese una quota rilevante in termini occupazionali, e le 200mila “assunzioni a tempo indeterminato” di cocopro che il governo ipotizza appaiono difficili. La loro eliminazione porterebbe molti a utilizzare le famigerate “false partite Iva”». E «si annunciano contenziosi sulle trasformazioni, perché saranno necessarie delle conciliazioni individuali, che potrebbero diventare onerose».

Nel 2012 già la riforma Fornero, in effetti, aveva puntato sul contratto a tempo indeterminato aumentando il costo di quelli a termine. Ma i contratti a tempo indeterminato non sono mai decollati e i contratti a termine sono aumentati. «Il peccato originale della riforma Fornero», spiega Failla, «è stato quello di costringere le aziende ad assumere a tempo indeterminato con il timore della sanzione. Con il Jobs Act, invece, si vuole provare a convincere le imprese ad assumere tramite gli incentivi economici e con una disciplina dei licenziamenti più flessibile. Se le cose non vanno bene, si può licenziare». Alcuni prevedono però che nel giro di sei mesi, finiti i soldi stanziati per i neoassunti, 1 miliardo per il 2015, finirà anche l’effetto Jobs Act. Ma sarebbe un’occasione sprecata.

Basteranno le tutele crescenti a «rottamare il diritto del lavoro», come ha detto Renzi? Secondo Failla, «questo è solo un primo tassello necessario ma non ancora sufficiente. Non è solo la modifica dell’articolo 18 che modifica il puzzle del mercato del lavoro. Bisogna attrezzare il diritto del lavoro al nuovo mondo. Serve un Testo unico semplificato. La direzione è quella ma non dobbiamo fermarci qui».

Fonte: Linkiesta.it

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