giovedì 6 giugno 2013

Stefano Cucchi, la divisa (ancora) non si processa

Il processo di primo grado si chiude con la condanna dei medici e l’assoluzione delle guardie carcerarie. Come dire: Cucchi è morto abbandonato e senza cure, ma non sappiamo se è stato pestato. Non ci sono prove sufficienti. Il ricovero in ritardo, le lesioni che due autopsie hanno riscontrato, le testimonianze di tre detenuti: per il tribunale, l’effetto è provato ma la causa no. Una sentenza destinata a non soddisfare nessuno.

Le indagini. La Procura di Roma, tra il 22 ottobre del 2009 e il 30 aprile del 2010, ricostruì una vicenda di violenza e abbandono. La prima autopsia riporta traumi alla gabbia toracica, la frattura di due vertebre lombari, ecchimosi diffuse sul viso, sulle gambe e sul tronco. Il fegato risulta danneggiato e la vescica, gonfia all’inverosimile (conteneva 1,4l al momento della morte, già penetrati nel resto dell’addome), era forata. La denutrizione evidente (Cucchi entrò in carcere con 43 chili addosso e ne uscì, cadavere, con 37 chili sulle ossa) avrebbe dato il colpo di grazia per ipoglicemia, arginabile anche solo con un cucchiaino di zucchero. 

Le testimonianze. Durante le indagini, la Procura ha raccolto la testimonianza di un ghanese, che nella cella di Regina Coeli avrebbe sentito dire a Cucchi di esser stato picchiato (il suo stato fisico, secondo il testimone, corrispondeva). Il detenuto Marco Fabrizi chiese di esser messo in cella con Stefano, che era solo, e di aver ricevuto da un agente un rifiuto motivato da “un gesto di percosse“, come dire: “è occupato a prenderle, resti qui”. Silvana Cappuccio dichiara (anche al processo) di aver visto personalmente gli agenti della polizia penitenziaria indagati picchiare Cucchi con violenza. Per queste testimonianze e l’autopsia, la Procura ha chiesto da 4 a 6 anni di carcere per gli agenti Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici.

La perizia del tribunale. Nel 2012, i periti nominati dal tribunale non si sbilanciano. Stabiliscono la responsabilità netta dei medici nella morte di Stefano, per non aver curato adeguatamente il paziente la notte del ricovero alla sezione carceraria dell’ospedale Sandro Pertini. Ma sulle cause della morte, stendono un velo di dubbio. “Le lesioni riscontrate potrebbero essere causa di un pestaggio o di una caduta accidentale: non ci sono elementi che facciano propendere per l’una piuttosto che per l’altra dinamica lesiva”. La scientifica non dà risposta e lascia ai giudici margine di manovra.

La sentenza. I 6 medici coinvolti sono stati condannati ieri in primo grado per omicidio colposo, da due anni a un anno e mezzo. Il tribunale ha deciso di assolvere le guardie penitenziarie: non ci sono, secondo i giudici, elementi sufficienti per condannarli. Le lesioni personali di cui sono accusati, l’abuso di autorità ad esso legato e raccontato dai testimoni, tutto questo non è successo: o quantomeno, il tribunale non ha ritenuto di doverlo riconoscere.

I dubbi ci sono, sono tanti e difficili da cancellare. Perché non sono stati considerati credibili i testimoni? Perché si è accertato l’effetto delle violenze e non la causa evidente? Una caduta, ancora una volta “accidentale” – come Pinelli quarant’anni fa – può davvero giustificare quelle lesioni e una morte in meno di 5 giorni? La famiglia Cucchi ha già annunciato che la lotta continua verso il processo d’appello. Ancora una volta sarà sola, come anche questa volta: lo Stato l’ha abbandonata fin da subito, quando il ministro Giovanardi liquidò Stefano come “un drogato, sicuramente sieropositivo, che è morto per quello che era”.

La giustizia di ieri è monca, volutamente monca, e lascia fuori - ancora una volta - la divisa. Che non si processa, mai. Ed è difficile dar torto alla sorella Ilaria, quando in lacrime fuori dall’aula grida la sua rabbia: “Giustizia ingiusta. Voi la sapete la verità, e questa giustizia non è la verità”. A che serve allora sentire l’agente carcerario Minichini (assolto per insufficienza di prove) gioire della “fine dell’incubo”? Per la famiglia, l’incubo continua ancora.

Fonte: Diritto di critica

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