sabato 29 aprile 2017

Primarie PD, dove e come si vota

Si vota domani dalle 8 alle 20: potranno partecipare cittadini italiani di almeno 16 anni e residenti col permesso di soggiorno

(ANSA)

Domani, domenica 30 aprile, si terranno le elezioni primarie del Partito Democratico per scegliere il nuovo segretario del partito. I candidati sono tre: il segretario uscente Matteo Renzi, il presidente della regione Puglia Michele Emiliano e il ministro della Giustizia Andrea Orlando. I seggi, allestiti soprattutto nelle sezioni locali del PD e nei gazebo, apriranno alle 8 di mattina e chiuderanno alle 20. Possono votare i cittadini italiani che hanno più di 16 anni, i cittadini dell’Unione Europea residenti in Italia e tutte le persone che hanno un permesso di soggiorno.

Chi può votare

Per votare bisogna andare al proprio seggio (che si può cercare sul sito ufficiale delle primarie) con un documento e la tessera elettorale, e versare un contributo minimo di due euro. Fino al 27 aprile ci si poteva pre-registrare online sul sito delle primarie. La pre-registrazione era obbligatoria per i giovani tra i 16 e i 18 anni, gli elettori fuori sede – per cui è stata anche attivata una procedura di voto online – e i cittadini UE residenti in Italia. Tutti gli altri potranno votare presentandosi semplicemente al proprio seggio. Chi abita in zone colpite dal terremoto nel Centro Italia potrà partecipare alle primarie in seggi speciali allestiti nei centri di accoglienza. Qui potranno votare senza obbligo di registrazione, con la sola esibizione del documento di riconoscimento.



I cittadini italiani residenti all’estero in maniera permanente o temporanea potranno votare in uno dei seggi allestiti all’estero – ce n’è almeno uno in ogni principale paese europeo – fornendo solamente il documento di identità italiano. Non sono quindi ammessi al voto cittadini stranieri (non italiani) non residenti in Italia.

Come si vota
Sarà sufficiente fare una croce sul candidato segretario prescelto: il voto andrà automaticamente a lui e alla lista di delegati a lui collegata. Qui sotto c’è un fac-simile della scheda diffuso dal PD.


Fonte: Il Post

Quante promesse ha mantenuto Trump?

Per i primi cento giorni da presidente, che cadono oggi, aveva elencato una trentina di impegni: ne ha rispettati pochini

(BRENDAN SMIALOWSKI/AFP/Getty Images)

Oggi, sabato 29 aprile, sono cento giorni che Donald Trump è presidente degli Stati Uniti: la sua cerimonia di insediamento si è tenuta infatti il 20 gennaio 2017. Di recente Trump ha ammesso che pensava che fare il presidente «sarebbe stato più facile», ma anche che i primi 100 giorni della sua amministrazione sono stati quelli «più di successo nella storia del paese».

Al di là di questa dichiarazione poco condivisa da osservatori e giornalisti, i primi 100 giorni di ogni nuovo governo o amministrazione sono spesso considerati sufficienti per tracciare un primo bilancio: non sono abbastanza per progetti strutturali e a lungo termine, ma sono sufficienti per dare un’idea di quale direzione prenderà l’amministrazione negli anni successivi. Specialmente quando, come nel caso di Trump, è lo stesso candidato presidente a promettere cambiamenti radicali e ad elencare una serie di misure che avrebbe fatto entro i primi tre mesi di governo: cosa che Trump fece nell’ottobre 2016, in un documento intitolato “Contratto con l’elettore americano” (a-ehm).

Molti siti e giornali – tra cui Vox e l’Atlantic – hanno analizzato e commentato i primi tre mesi di Trump proprio a partire da questo documento. Trump si prese una trentina di impegni. Ne ha rispettati tre, circa un decimo. In altri casi ha cambiato idea, non ci ha nemmeno provato o non ha ottenuto risultati concreti.

Cosa ha fatto Trump
Tra le cose che Trump è riuscito a fare c’è la nomina in tempi piuttosto rapidi di Neil Gorsuch per il seggio vacante della Corte Suprema, il più importante organo giuridico americano. Il seggio era vacante dalla morte del giudice conservatore Antonin Scalia, e per via dell’ostruzionismo del partito Repubblicano il Senato non aveva mai esaminato e ratificato il giudice proposto da Barack Obama. È una scelta che lascerà il segno, perché Gorsuch è piuttosto giovane – ha 49 anni – e la nomina a giudice della Corte Suprema dura a vita.

Trump ha anche mantenuto la promessa di ritirarsi dal trattato TPP, cioè il Trans Pacific Partnership (Partnerariato Trans-Pacifico, da non confondersi con altre cose con sigle simili). Il TPP è uno dei più grandi accordi commerciali mai sottoscritti, firmato nel 2015 da 12 paesi: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e Stati Uniti, che però dovevano ancora ratificarlo. Il Congresso a maggioranza Repubblicana aveva già fatto sapere di non volerne sapere: quindi per Trump è stata una vittoria facile, più che altro simbolica, ma comunque una vittoria.

Secondo Vox la terza promessa mantenuta di Trump riguarda l’immigrazione: «ha fatto passi significativi per rendere più dure e intimidatorie le misure sull’immigrazione», e grazie ai suoi numerosi divieti è riuscito a creare effettivamente un clima più ostile per gli immigrati, nonostante le successive sospensioni dei decreti ordinate dai tribunali. Trump aveva detto di voler espellere dal paese 2 milioni di immigrati illegali e di voler rendere molto più difficile l’ingresso di stranieri negli Stati Uniti. Gli immigrati espulsi sono stati molti meno di 2 milioni, ma ci sono state altre misure – come la sospensione del programma di accoglienza per i richiedenti asilo siriani – che hanno fatto capire che l’approccio è cambiato.

Cosa non ha fatto Trump
Vox ha scritto che «c’è una gran quantità di leggi che Trump ha detto avrebbe fatto approvare e che non sono diventate leggi e, in molti casi, non sono nemmeno state proposte nella forma di qualcosa che somigli anche solo lontanamente a una legge».

La più grande sconfitta di Trump è però quella sull’Obamacare, la storica riforma sanitaria introdotta dal suo predecessore Barack Obama nel 2014. In campagna elettorale Trump puntò molto sulla proposta della sua abolizione, e promise che l’avrebbe rimpiazzata entro tre mesi. In realtà in marzo ha ritirato la sua confusa proposta di riforma prima ancora che venisse votata dalla Camera, capendo che sarebbe stata bocciata perché una trentina di deputati Repubblicani avevano fatto sapere che non l’avrebbero votata.

Trump non è nemmeno riuscito – ma questo era oggettivamente più difficile – a convincere il Messico a pagare totalmente il muro che intende costruire tra Messico e Stati Uniti e, per la verità, non ha nemmeno iniziato a costruirlo (nel Contratto aveva promesso di trovare i finanziamenti entro i primi 100 giorni). Trump aveva anche detto di voler tagliare da subito i fondi alle cosiddette “sanctuary cities”, cioè le città che scelgono di non considerare come reato l’immigrazione clandestina. Come successo per i divieti sull’immigrazione, Trump ha firmato un ordine esecutivo a riguardo, ma un giudice federale ha bloccato il provvedimento.

Per quanto riguarda invece il clima, Trump aveva detto di voler togliere i finanziamenti miliardari degli Stati Uniti all’ONU (e in generale di impegnarsi meno per combattere il cambiamento climatico), per investire quei soldi per sistemare le infrastrutture degli Stati Uniti. Non l’ha fatto, ma ha comunque firmato un ordine esecutivo per cancellare buona parte delle iniziative adottate dall’amministrazione Obama per contrastare il cambiamento climatico, che però al momento rimane sulla carta.

Nel documento sui suoi primi 100 giorni da presidente Trump non parlò molto di politica estera, ed è quindi difficile dire se ha mantenuto o meno quanto promesso. Trump però fu molto duro nei confronti della Cina – disse di volerla mettere nella lista di paesi che manipolano la propria valuta – ma da presidente ha cambiato decisamente idea, e al momento sembra voglia collaborare con la Cina per provare a gestire la situazione in Corea del Nord.

Trump inoltre aveva detto di voler imporre un limite di mandati per ogni membro del Congresso, e di voler prendere una serie di provvedimenti per limitare i costi della politica e per semplificarne i meccanismi (parlò ad esempio di voler imporre l’eliminazione di due norme federali per ogni nuova norma approvata): anche in questo caso, la promessa non è stata mantenuta, e non è chiaro a che punto siano gli sforzi dell’amministrazione per rispettarla.

Cose da leggere sui primi 100 giorni di Trump
Il New York Times ha chiesto ai suoi lettori di raccontare se e come questi 100 giorni li hanno cambiati e ha raccolto i suoi titoli sui primi 100 giorni da presidenti di Trump, Barack Obama e George W. Bush; il Washington Post ha analizzato i tweet di Trump e ha scritto in un editoriale che ci sono state cose allarmanti ma che «il sistema sta funzionando» e per ora non si è «entrati nella realtà distopica che molti, noi compresi, temevano». Il Guardian ha scritto invece che «tutte le prove di questi 100 giorni mostrano che il futuro sarà profondamente imprevedibile».

Fonte: Il Post

Le autorità turche hanno bloccato l'accesso a Wikipedia

La popolare enciclopedia non è più accessibile nel paese. Ancora non sono chiare le ragioni


Dalle otto del mattino ora locale (sei ora italiana), in tutta la Turchia risulta bloccato il sito Wikipedia, la celebre enciclopedia i cui contenuti sono generati dagli utenti nonché uno dei siti più visitati al mondo. Non sono ancora chiare le ragioni per cui le autorità turche avrebbero preso questa decisione.

L'autorità per le comunicazioni turca ha reso noto con un comunicato che sono state prese alcune misure in seguito a un'analisi della legge nazionale 5651 relativamente al sito, senza fornire ulteriori spiegazioni.

La decisione arriva circa dieci giorni dopo la vittoria da parte del Sì, promosso dal presidente Recep Tayyip Erdogan, in un referendum fortemente contestato dalla comunità internazionale. Questa vittoria attribuisce al presidente poteri particolarmente ampi.

Fonte: The Post Internazionale

La Corea del Nord ha realizzato un nuovo test missilistico

Il lancio di un missile balistico sarebbe fallito, secondo quanto riportato da fonti militari statunitensi e sudcoreane


La Corea del Nord ha realizzato un nuovo test missilistico, secondo quanto riportato da fonti militari statunitensi e nordcoreane. Il missile balistico, secondo le stesse fonti, sarebbe esploso poco dopo il lancio, che sarebbe dunque fallito.

Il test sarebbe avvenuto nella provincia di Pyeongan, a nord di Pyongyang, nelle prime ore di sabato 29 aprile. La prima reazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump è arrivata con un tweet, in cui ha accusato la Corea del Nord di aver mancato di rispetto alla Cina e al suo presidente con questo test.

Trump ha incontrato nei mesi scorsi il capo di stato cinese Xi Jinping, discutendo tra le altre cose anche della Corea del Nord.

Questo test arriva inoltre in un momento molto teso nell'ambito della situazione politica nella penisola coreana. Il segretario di Stato americano Rex Tillerson non ha escluso l'uso della forza da parte degli Stati Uniti qualora Pyongyang non dovesse interrompere i suoi test.

Fonte: The Post Internazionale

venerdì 28 aprile 2017

Facciamo ordine sulla legge elettorale

Sono passati più di tre mesi dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha smontato l'Italicum: a che punto sono le discussioni? E che tempi ci sono?

(LaPresse - Massimo Paolone)

Sono passati più di tre mesi dalla sentenza con cui la Corte Costituzionale ha bocciato due importanti pezzi dell’Italicum, la legge approvata dal Parlamento su iniziativa politica dell’ex governo di Matteo Renzi. Da allora non ci sono state notizie particolari sul tema legge elettorale, ma moltissime discussioni: e questo è uno di quei casi in cui le varie prese di posizione messe tutte insieme fanno una notizia, vista l’incertezza sulla durata della legislatura in corso e la possibilità che si vada a votare nel corso dei prossimi mesi: la legislatura scadrà comunque nel febbraio del 2018, ma la situazione è ancora molto confusa.

I tempi
Tra la fine di aprile e la fine di maggio le cose potrebbero cominciare a muoversi davvero: domenica 30 aprile ci saranno le primarie del PD per la scelta del nuovo segretario e il 2 o 3 maggio il relatore alla Camera, Andrea Mazziotti del PD, che è anche il presidente della commissione Affari costituzionali, porterà in commissione un testo base di riforma della legge elettorale. Dopo gli emendamenti da presentare entro il 12 maggio, la proposta dovrebbe essere votata il 25 maggio e arrivare in aula, come deciso dai capigruppo della Camera, il 29 maggio. Qualche giorno fa il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha invitato Camera e Senato ad affrontare il tema e ad arrivare a risultati concreti in tempi brevi.

Di quali riforme si parla?
Rispondere a questa domanda è molto complicato. La discussione sulla legge elettorale procede nella commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati dallo scorso febbraio. Ci sono molte proposte (una trentina) ma non è ancora chiaro a quale sistema elettorale si intenda arrivare. Tra i progetti di legge presentati all’inizio, alcuni propongono una versione aggiornata del Mattarellum, la legge in vigore tra il 1993 e il 2005; una legge maggioritaria con alcuni correttivi proporzionali che incentiva le coalizioni pre-elettorali. La maggior parte delle altre proposte sembra puntare invece a sistemi proporzionali con (eventuale) premio di maggioranza. Il Mattarellum modificato è stato fin dall’inizio la proposta ufficiale del PD e piace anche al segretario della Lega Nord Matteo Salvini. Potenzialmente potrebbe piacere anche ai partiti più piccoli, con cui le formazioni più grandi sarebbero incentivate ad allearsi. Non piace invece a Silvio Berlusconi, perché rischia di costringerlo ad allearsi con la Lega Nord che, probabilmente, finirebbe con l’esprimere il candidato presidente del Consiglio dell’intera coalizione.

Le discussioni in commissione e l’impossibilità di un accordo su una nuova versione del Mattarellum hanno portato a una modifica delle posizioni iniziali e negli ultimi giorni le prevalenti sembrano essere due, ma la situazione è molto confusa: alcune forze politiche (compreso il PD, Forza Italia, e anche la Lega) sembrava che avessero trovato un compromesso nel cosiddetto “Provincellum”: un sistema che assomiglia alla vecchia legge elettorale per le province, con tanti collegi uninominali proporzionali. Vuol dire che ciascun partito può presentare un unico candidato per collegio. I seggi verrebbero assegnati sulla base dei voti presi da ciascuna forza politica a livello nazionale e verrebbero eletti i candidati del partito con la percentuale di voti più alta nei singoli collegi, ma non in base al confronto dei candidati all’interno del collegio. Il Movimento 5 Stelle non è favorevole ai collegi uninominali e sta lavorando sull’Italicum modificato dalla Consulta, definito “Legalicum”, con l’introduzione di alcuni correttivi di governabilità: premio alla lista che ottiene almeno il 35 per cento a livello nazionale, soglia di sbarramento al 5 per cento per eliminare i piccoli partiti (attualmente è al 3 per cento alla Camera), seggi attribuiti in modo decrescente ai partiti che prendono meno voti.

Una settimana fa in commissione Affari Costituzionali alla Camera il capogruppo del PD, Emanuele Fiano, aveva detto che il suo partito era disposto ad accantonare il Mattarellum per arrivare a un diverso sistema elettorale basato però su tre «imprescindibili pilastri»: premio di lista, collegi uninominali, soglie di sbarramento omologate per Camera e Senato. Sempre Fiano aveva spiegato che il Provincellum poteva «produrre delle distorsioni nell’assegnazione dei seggi» e che «per questo si sta discutendo sul numero dei collegi e sulla loro ampiezza. Oppure si potrebbe passare a collegi con più candidati». Con il Provincellum i partiti dovrebbero abbandonare la possibilità (in vigore per la Camera) di scegliersi dei deputati sicuri con i capilista bloccati. Dopo una prima apertura su questa proposta in commissione, alla fine Matteo Renzi ha stroncato il Provincellum dicendo «che è un sistema che non ha preferenze, che fa finta di avere i collegi, ma poi non si sa se passa il tuo candidato o no».

Le principali questioni che dividono i vari partiti sulle differenti proposte sono: il premio di maggioranza (il PD e anche il M5S lo vorrebbero alla lista, Forza Italia alla coalizione), le soglie di sbarramento (i partiti di centro le vorrebbero al 3 per cento sia alla Camera che al Senato, mentre sia il PD che il M5S sono favorevoli a soglie più alte) e i capilista bloccati che, se si scegliessero i collegi uninominali, verrebbero di fatto eliminati.

Il problema di Forza Italia
Al di là della forma della nuova legge elettorale, Forza Italia vorrebbe allungare i tempi dell’approvazione della legge e dunque allontanare possibili elezioni anticipate. Il ricorso di Silvio Berlusconi alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo – contro la legge Severino, che ne ha sancito la decadenza da senatore – sarà infatti esaminato nei prossimi mesi dalla Grande Camera, che è formata da presidenti, vicepresidenti e da altri 14 giudici (17 membri in totale). Il ricorso di Berlusconi si basa sull’argomento che l’articolo 7 della Convenzione europea impedisce la retroattività delle leggi. I problemi sono i tempi: Berlusconi vorrebbe infatti aspettare l’arrivo della sentenza e vorrebbe dunque evitare il voto almeno fino al prossimo autunno.

Da tenere presente
In teoria sarebbe possibile andare a votare immediatamente, con la legge elettorale Italicum modificata dalla Corte Costituzionale alla Camera, e con il Consultellum valido al Senato, risultato della modifica del 2014 alla legge elettorale voluta dal governo Berlusconi nel 2006 (il famoso “Porcellum”). Se si votasse con le due leggi attualmente in vigore, probabilmente non ci sarebbe una maggioranza chiara in nessuno dei due rami del Parlamento. Nessuna forza politica sembra in grado da sola di raggiungere il 40 per cento necessario a ottenere il premio di maggioranza alla Camera. Potrebbe essere un obiettivo più facile per un’ampia coalizione, ma l’attuale premio è assegnato alla singola lista. In questo caso, i partiti che volessero allearsi dovrebbero accettare di presentarsi alle elezioni con un unico elenco di candidati, rendendo meno identificabili le singole formazioni che compongono la lista.

Fonte: Il Post

Più di 100 persone ferite negli scontri all'interno del parlamento macedone

Il leader del partito socialdemocratico Zoran Zaev ha lasciato l'edificio con il volto insanguinato. Il parlamento è stato sgomberato dalla polizia

La protesta è nata contro l'elezione alla presidenza dell'Assemblea dell'esponente della minoranza albanese Talat Xhaferi

La polizia macedone ha completato nella tarda sera del 27 aprile lo sgombero del parlamento di Skopje con l'evacuazione di tutti i deputati e dei manifestanti che avevano fatto irruzione nell'edificio in protesta per l'elezione alla presidenza dell'Assemblea dell'esponente della minoranza albanese Talat Xhaferi.

Negli scontri sono rimaste ferite almeno 100 persone, tra cui 22 poliziotti e molti deputati, secondo quanto riporta l'agenzia di stampa Ansa. Tra le persone rimaste ferite anche il leader del partito socialdemocratico Zoran Zaev, che ha lasciato il parlamento con il volto insanguinato.

Alcuni dei circa 200 manifestanti avevano il viso coperto. Secondo quanto raccontato da alcuni testimoni, in tutto l'edificio si potevano vedere vetri rotti a terra e tracce di sangue sparse su muri e pavimenti.

A difesa del parlamento sono state erette barriere metalliche e tutti gli ingressi dell'edificio sono rimasti presidiati dagli agenti.

Il presidente Gjorgje Ivanov ha convocato per il 28 aprile i leader di tutti i partiti per cercare di risolvere la situazione di profonda crisi. In un breve intervento nella tarda serata del 27 aprile il presidente ha lanciato un invito alla calma e alla moderazione affermando che solo il popolo macedone può risolvere i suoi problemi.

Inviti al dialogo e alla fine delle violenze sono venuti da numerosi ambasciatori esteri e dal commissario Ue all'allargamento Johannes Hahn.

In un video di Radio Free Europe che circola in rete si possono vedere alcuni momenti degli scontri avvenuti all'interno del parlamento.

Durante l'irruzione di alcuni manifestanti è stato preso di mira anche Zaev, accusato di aver sostenuto insieme ad altri membri del suo partito la candidatura di Xhaferi, il primo presidente albanese del parlamento dal 1991, anno dell'indipendenza della Macedonia.

La polizia macedone ha utilizzato granate stordenti per disperdere i manifestanti e permettere l'evacuazione dei parlamentari e l'arrivo delle ambulanze.

“Nel tentativo di tenere sotto controllo la situazione dentro e fuori dal parlamento, abbiamo ordinato alla polizia di usare tutte le misure necessarie”, ha detto il ministro degli Esteri macedone Agim Nuhiu in un'intervista televisiva.

Il problema della convivenza con la minoranza albanese ha già causato un'insurrezione nel 2001, poi risolta grazie alla mediazione internazionale. La validità del voto che ha portato all'elezione di Xhaferi è stato messo in dubbio dai membri del parlamento e dagli appartenenti al movimento nazionalista Vmro.

L'instabilità politica in Macedonia va avanti dal dicembre del 2016. Dopo le elezioni Zaev è riuscito a stringere alleanza politiche con il partito albanese, ma da allora non è stato ancora formato un governo nel paese.

Fonte: The Post Internazionale

Secondo Trump un "serio conflitto" con la Corea del Nord è possibile

Il presidente degli Stati Uniti ha detto che preferisce comunque una soluzione pacifica, elogiando il ruolo del presidente cinese nella gestione della crisi

Sul leader nordcoreano Kim Jong-un, nell'intervista rilasciata alla Reuters Trump ha detto che si augura che sia “razionale”

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha detto, in un'intervista all'agenzia di stampa Reuters, che un serio e grave conflitto con la Corea del Nord è possibile considerato lo stallo sulla questione del nucleare e sul programma missilistico di Pyongyang. Trump ha anche aggiunto di preferire una soluzione diplomatica alla disputa.

“C'è la possibilità che si arrivi a un serio, serio conflitto con la Corea del Nord. Assolutamente”, ha detto Trump durante l'intervista nello Studio Ovale sui primi cento giorni da presidente.

Trump ha detto di voler comunque risolvere la crisi che ha assillato molti suoi predecessori pacificamente, una strada che lui e la sua amministrazione stanno enfatizzando, preparando alcune nuove sanzioni economiche, mentre comunque non si lascia la soluzione militare fuori dal tavolo. 

“Vorremmo trovare una soluzione diplomatica, ma è davvero difficile”, ha sottolineato il presidente degli Stati Uniti. Secondo l'inquilino della Casa Bianca altro obiettivo è quello di far pagare il sistema difensivo anti-missili Thaad alla Corea del Sud, per un costo stimato di circa un miliardo.

Trump ha fatto sapere che sta anche pensando di far tappa in Israele e Arabia Saudita durante il suo viaggio in Europa previsto per il mese di maggio, sottolineando come vorrebbe che si possa arrivare a una pace tra Israele e Palestina.

Tornando sulla questione nordcoreana, Trump ha elogiato il presidente cinese Xi Jinping per l'aiuto offerto da Pechino nel tentativo di gestire la situazione con Pyongyang.

“Credo ci stia provando davvero con forza, certamente non vuole vedere tumulti e morti, è un uomo buono”, ha poi detto sul presidente cinese.

Gli ufficiali statunitensi hanno fatto sapere che attacchi militari per la situazione nordcoreana rimangono una opzione possibile ma stanno cercando di minimizzare questa prospettiva.

Sul leader nordcoreano Kim Jong-un, Trump ha detto che si augura che sia “razionale”. “Ha 27 anni, non è facile a quell'età. Non gli sto dando o non dando credito, sto solo dicendo che è una cosa davvero difficile da fare. Se lui sia razionale o meno, non ho opinioni a riguardo, spero lo sia”, ha affermato il presidente degli Stati Uniti.

Parlando di una possibile telefonata con presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, Trump ha spiegato che prima di farla parlerà con il presidente cinese. “Ho stabilito una relazione personale molto buona con Xi, sta facendo tutto ciò che può per aiutarci, quindi non voglio causargli difficoltà”.

Una nota di colore raccontata dalla Reuters riguarda un pulsante sulla scrivania del presidente, che Trump preme per ordinare e farsi portare una Coca Cola.

Fonte: The Post Internazionale

giovedì 27 aprile 2017

Il confronto tv per le primarie del PD

Che cosa hanno detto Matteo Renzi, Michele Emiliano e Andrea Orlando durante il dibattito andato in onda ieri sera su Sky TG24: domenica prossima si vota

(Sky)

Ieri sera i tre candidati alle primarie per la segreteria del Partito Democratico si sono confrontati su Sky TG24, nel corso di un dibattito organizzato a pochi giorni dal voto, che si terrà domenica 30 aprile. Hanno partecipato il segretario uscente ed ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, l’attuale ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e il presidente della Puglia, Michele Emiliano. La trasmissione ha usato lo stesso formato degli incontri organizzati negli scorsi anni: 90 secondi per ogni risposta e tre possibilità di replica da 30 secondi ciascuna, con una parte finale di domande incrociate scelte dai candidati e dai loro sostenitori.

Rispondendo alla domanda sull’affluenza alle primarie, tema molto dibattuto nelle ultime settimane, Renzi ha detto che “tutto ciò che ha la cifra con un milione davanti va bene”. Orlando ha criticato la risposta definendola poco ambiziosa e dicendo di aspettarsi almeno “due milioni di persone, come disse Renzi all’ultimo congresso”. Il numero di votanti potrebbe dare qualche indicazione sull’umore tra gli iscritti e i simpatizzanti del PD, e di conseguenza sul loro giudizio su Renzi, dato per favorito anche a queste primarie.

Emiliano ha criticato gli ultimi governi, compreso quello di Renzi, per come sono state gestite le ricorrenti crisi di Alitalia, che ora rischia la chiusura: “Adesso qualcuno pretenderebbe di far fallire la compagnia, bisogna evitarlo a ogni costo”. Orlando ha detto di essere contrario alla liquidazione e di essere dalla parte dei lavoratori, mentre Renzi è stato più vago dicendo che “è assurdo che un paese come il nostro butti via questa occasione” e che la risposta deve passare attraverso una soluzione che non preveda ulteriori spese pubbliche.

Sulla legge elettorale, su cui si è espresso ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella invitando Camera e Senato ad affrontare il tema, Renzi ha detto di volere una legge maggioritaria e di non volere andare al voto con un proporzionale. Emiliano ha detto che la nuova legge elettorale deve essere fatta, ma si è mantenuto più vago, mentre Orlando ha detto che “la legge elettorale è una priorità assoluta” e che gli elettori devono poter scegliere “quale governo vogliono, quali parlamentari vogliono”.

I tre candidati hanno invece dato risposte simili sul tema del biotestamento. Secondo Renzi va bene la legge da poco votata alla Camera, Orlando ha detto di essere dello stesso parere. Anche Emiliano ha detto di essere favorevole al testamento biologico e alla legge che sta discutendo il Parlamento.

Sul bonus degli 80 euro Renzi ha difeso la scelta del suo governo, che lo aveva introdotto, dicendo che per molte persone sono un aiuto concreto. Emiliano lo ha criticato dicendo che “Renzi pensa di risolvere i problemi con i bonus e non con i diritti”. Orlando ha definito il bonus “una scelta giusta”, ma ha criticato altri provvedimenti simili come il bonus cultura da 500 euro ai diciottenni, dato anche a chi non ne aveva economicamente bisogno.

Rispondendo a una domanda sui migranti, Emiliano ha detto che “serve un meccanismo legale che ci permetta di verificare se si tratta di persone pericolose”, ma non è entrato molto nello specifico. Orlando ha parlato della necessità di un limite nelle politiche di accoglienza, mentre Renzi ha detto che il tema deve essere posto e discusso in primo luogo in sede europea: “Non possiamo continuare a dare ai paesi che costruiscono muri i soldi per continuare a costruirli”. Tutti e tre i candidati hanno invece concordato sul fatto che l’uscita dall’Euro non è un’opzione percorribile.

Come negli scorsi confronti, anche questa volta è stato chiesto ai tre candidati di indicare un loro idolo, pensando a quale poster appenderebbero oggi in camera se fossero 15enni. Emiliano ha detto che avrebbe scelto Yuri Chechi perché “si è rotto un tendine come me, io ho saltato solo la campagna elettorale, lui le Olimpiadi”. Renzi ha detto che in camera aveva appeso un poster di Roberto Baggio, uno dei Duran Duran e uno di Bob Kennedy, e che oggi ne aggiungerebbe uno con Barack Obama. Orlando ha detto che aveva un poster di Berlinguer e una foto di Allende, ma che oggi aggiungerebbe Mandela.

Fonte: Il Post

La Turchia ha sospeso più di 9mila funzionari di polizia

Il governo di Ankara sta portando avanti una campagna per individuare gli affiliati alla rete di Fethullah Gulen, ritenuto responsabile del fallito golpe del 2016

Fethullah Gulen si trova in esilio negli Stati Uniti. Credits: Reuters

Le autorità turche hanno sospeso il 26 aprile più di 9mila funzionari di polizia accusati di avere responsabilità nell'organizzazione del fallito colpo di stato del luglio del 2016, in collaborazione con Fethullah Gulen. La notizia è stata riferita dall'emittente televisiva Cnn Turk.

Il governo di Ankara nella stessa giornata ha arrestato più di mille persone in 72 province della città considerate legate alla rete di Gulen.

In seguito al fallito golpe, gli arresti in totale sono stati 40mila. Circa 120mila persone sono state sospese dalle loro professioni. Tra di loro insegnanti, poliziotti, impiegati, soldati sospettati di essere membri di gruppi terroristici.

Fonte: The Post Internazionale

Esplosione vicino all'aeroporto di Damasco

Colpito un deposito di munizioni che contiene armi usate dai miliziani sostenuti dall'Iran. L'attacco sarebbe stato eseguito dall'esercito israeliano

Secondo quanto riportato da al-Manar, l'esplosione avrebbe causato solo danni materiali e non il ferimento o la morte di persone

Una “enorme” esplosione è stata avvertita vicino all'aeroporto di Damasco, in Siria. Probabilmente l'esplosione è stata causata da un raid aereo israeliano, secondo quanto riferito dalla televisione libanese al-Manar.

Un portavoce dell'esercito israeliano, a cui è stato chiesto se Israele fosse coinvolto nel raid, ha risposto di “non poter commentare questa notizia”.

Due fonti vicine ai ribelli che operano nella città di Damasco hanno riferito che cinque attacchi hanno colpito un deposito di munizioni usato dai miliziani sostenuti dall'Iran.

Nel magazzino, secondo quanto scrive l'agenzia di stampa Reuters, operano i militanti del gruppo libanese Hezbollah, ricevendo forniture di armi da Teheran.

“Il deposito contiene un numero significativo di armi che l'Iran, uno dei maggiori alleati nella regione del presidente Assad, invia regolarmente”, ha riportato la fonte citata da Reuters.

Secondo quanto riportato da al-Manar, l'esplosione avrebbe causato solo danni materiali e non il ferimento o la morte di persone.

La notizia dell'esplosione è stata data inizialmente dall'Osservatorio per i diritti umani in Siria, parlando di una “grossa esplosione” vicino all'aeroporto. In seguito sarebbe scoppiato un incendio che sembrava provenire da una zona militare dell'area.

Fonte: The Post Internazionale

mercoledì 26 aprile 2017

L’incidente ferroviario al Brennero

Due operai sono morti e altri tre sono rimasti feriti nello scontro tra due mezzi tecnici sulla linea tra Bolzano e Bressanone

(ANSA/VIGILI DEL FUOCO)

Due operai sono morti e altri tre sono rimasti gravemente feriti nello scontro tra due mezzi tecnici per la manuntenzione dei binari vicino a Bressanone, in provincia di Bolzano, sulla linea ferroviaria che porta al passo del Brennero. L’incidente è avvenuto poco prima di mezzanotte, mentre sulla linea circa cinquanta operai stavano lavorando alla sostituzione delle traversine sotto i binari. L’incidente ha coinvolto una profilatrice e una rincalzatrice, di proprietà di una ditta esterna.

Secondo la ricostruzione del quotidiano L’Adige, al momento dell’incidente la profilatrice si trovava in cima a una salita quando, forse in seguito a un malfunzionamento, il sistema che la teneva bloccata è saltato e la macchina ha iniziato a scendere a valle, acquistando sempre maggiore velocità. Poche centinaia di metri sotto si trovava la rincalzatrice, con a bordo cinque operai. L’impatto tra i due veicoli ha incendiato i due mezzi e li ha sbalzati fuori dai binari. Due operai sono morti al momento dell’impatto, mentre altri tre sono rimasti feriti.

Fonte: Il Post

Matteo Renzi ce la può ancora fare?

A cambiare davvero l'Italia: se lo chiede Michele Salvati sul Corriere recensendo il libro di Massimo Salvadori

Matteo Renzi il 26 novembre 2016. (AP Photo/Andrew Medichini)

Sul Corriere della Sera di martedì il saggista e politologo Michele Salvati recensisce il libro dello storico Massimo Salvadori (già deputato del PD, come Salvati nel PdS prima di lui), intitolato Lettera a Matteo Renzi, chiedendosi – come Salvadori – se ci siano prospettive che Renzi rimedi agli errori fatti nella messa in pratica del suo progetto di innovazione della politica e dell’Italia. Primo tra tutti, non essersi saputo dotare di forze e collaborazioni sufficienti, “al di là delle albagie fiorentine di grandezza”.


Da alcuni giorni è nelle librerie Lettera a Matteo Renzi, una breve «saggina» Donzelli di Massimo L. Salvadori. Le prime venti pagine sono la lettera vera e propria, che contiene le valutazioni più personali dell’autore, di consenso e insieme di critica, e si conclude coll’invito a rimediare ai difetti e agli errori che la breve ma intensa vicenda politica del destinatario ha rivelato, e però a far tesoro dell’intuizione politica originaria e a «non mollare». Le successive cento sono un’analisi del contesto storico in cui quella vicenda si è svolta e degli avvenimenti di poco precedenti necessari per capirla, grossomodo a partire da Tangentopoli, dai primi anni Novanta a oggi. Si tratta di una vicenda in pieno svolgimento e i prossimi capitoli devono ancora essere scritti: la contesa in corso per la segreteria del Partito democratico, le elezioni politiche previste per il prossimo anno.


Massimo L. Salvadori, da grande storico, conosce bene la differenza tra una interpretazione esauriente e un saggio di intervento politico in medias res. Ed è nelle condizioni ideali per scriverlo: legato da una vita alle tradizioni della sinistra, straordinario conoscitore della storia italiana, non è stato né acriticamente favorevole, né pregiudizialmente ostile al tentativo di innovazione condotto da Matteo Renzi. Una condizione ideale, insieme alla facilità di lettura e alla gradevolezza dello stile, per una utile messa a punto destinata a lettori che non hanno molto tempo da dedicare ad analisi più dettagliate.


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Fonte: Il Post

Oltre mille arresti in Turchia tra gli affiliati della rete di Gulen

Una serie di retate avvenute in 72 province ha portato alla detenzione di 1009 sospetti “imam”, figure di coordinamento dell'organizzazione dell'oppositore di Erdogan

Dopo il tentato colpo di stato nel luglio 2016, le autorità hanno arrestato 40mila persone. Credit: Reuters

Maxi-blitz in Turchia contro la presunta rete golpista di Fethullah Gulen: in una serie di retate condotte in 72 province, sono stati arrestati nella notte di mercoledì 26 aprile almeno 1009 sospetti affiliati alla struttura considerata eversiva. Lo ha comunicato il ministro degli Interni, Suleyman Soylu. A finire in manetta, secondo quanto spiegato dal ministro, sono stati 1009 sospetti “imam”, cioè figure di coordinamento dell'organizzazione.

I blitz, coordinati dalla procura generale di Ankara, hanno visto in campo 8500 agenti. Le operazioni sono ancora in corso, alla ricerca di altri possibili sospetti. I detenuti verranno portati nella capitale. 

Dopo il tentato colpo di stato nel luglio 2016, le autorità hanno arrestato 40mila persone e sospeso altre 120mila dai loro posti di lavoro.

Gli ultimi arresti arrivano a dieci giorni dal referendum sul presidenzialismo proposto dal presidente Tayyip Erdogan e passato di misura, nonostante le accuse di brogli da parte dell'opposizione.

Fonte: The Post Internazionale

La libertà di stampa nel mondo nel 2017

Secondo il report di Rsf, i paesi con maggiore libertà d'informazione sono Norvegia e Svezia. L'Italia recupera 25 posizioni ed è 52esima. Ultima la Corea del Nord

“Abbiamo raggiunto l'età della post-verità, della propaganda e della soppressione delle libertà”, si legge nel documento. Credit: Rsf.org

Il rapporto del 2017 sulla libertà di stampa realizzato da Reporters sans Frontieres (Rsf) “riflette un mondo in cui gli attacchi contro i media sono diventati ordinari e gli uomini forti sono in ascesa. Abbiamo raggiunto l'età della post-verità, della propaganda e della soppressione delle libertà, soprattutto nelle democrazie”. Inizia così il rapporto dell'organizzazione che tutti gli anni evidenzia la situazione di tutti i paesi del mondo in riferimento alla libertà di stampa.

Credit: Rsf.org

Nell'indice, in cui si evidenzia la libertà d'informazione in paesi come Norvegia (prima), Svezia (seconda) e Finlandia (terza), si assiste a una risalita dell'Italia: dal 77esimo posto del 2016 all'attuale 52esimo.

Nonostante il balzo in avanti di 25 posizioni, restano però “intimidazioni verbali o fisiche, provocazioni e minacce” e “pressioni di gruppi mafiosi e organizzazioni criminali”. Tra i problemi indicati anche l'effetto di “responsabili politici come Beppe Grillo che non esitano a comunicare pubblicamente l'identità dei giornalisti che danno loro fastidio”.

Nel rapporto 2017 si sottolinea che “sei giornalisti italiani sono sempre sotto protezione della polizia 24 ore su 24 dopo minacce di morte da parte di mafia o gruppi fondamentalisti”.

Credit: Rsf.org

“I giornalisti subiscono pressioni da parte dei politici e optano sempre più per l'autocensura: un nuovo testo di legge fa pesare su chi diffama politici, magistrati o funzionari, pene che vanno da 6 a 9 anni di carcere”, si legge ancora nel capitolo dedicato all'Italia.

L'indice realizzato da Reporters sans Frontieres si basa su alcuni criteri che sono il pluralismo dei media, l'indipendenza, la qualità del quadro giuridico e la sicurezza dei giornalisti in 180 paesi del mondo. È stilato mediante la compilazione di un questionario in 20 lingue inviato a esperti di tutto il mondo. Nell'indice minore è il punteggio, maggiore è la libertà di stampa nel paese.

L'ossessione per la sorveglianza e le violazioni dei diritti hanno contribuito a un continuo declino di paesi precedentemente ritenuti virtuosi, secondo Rsf. Tra questi paesi sono inclusi gli Stati Uniti (scesi di due posti, ora al 43esimo), il Regno Unito (due posizioni in meno), il Cile e la Nuova Zelanda.

Secondo il rapporto, l'ascesa di Trump e la campagna per la Brexit sono responsabili di una “bastonata” ai media e di una campagna tossica contro i media stessi che ha portato il mondo “nell'era della post-verità, della disinformazione e delle fake news”.

Critiche dal rapporto arrivano nei confronti del governo polacco e di Jaroslaw Kaczynski e verso l'Ungheria guidata da Viktor Orban.

Sempre più complicata si fa la situazione in Turchia, dopo il tentato colpo di stato del luglio 2016. Il presidente Recep Tayyip Erdogan viene accusato di aver instaurato un “regime autoritario” che lo rende “l'uomo che detiene più professionisti dei media in prigione”. In basso nella graduatoria, poco davanti rispetto alla Turchia (155esima) c'è la Russia di Vladimir Putin, in 148esima posizione.

Dopo sei anni al primo posto, la Finlandia ha ceduto la testa della classifica in seguito a pressioni politiche e a casi di conflitto d'interesse. Il primo posto va alla Norvegia, seguita dalla Svezia che guadagna quattro posizioni. I giornalisti continuano a subire minacce in Svezia, ma “le autorità hanno inviato segnali positivi nel combattere i responsabili”.

In fondo alla graduatoria si trova invece l'Eritrea (179esima) che ha però lasciato l'ultimo posto per la prima volta dal 2007. A fare peggio ora c'è la Corea del Nord, un paese che “continua a tenere la sua popolazione nell'ignoranza e nel terrore”. Nelle ultime posizioni anche il Turkmenistan e la Siria.

La libertà dei media, secondo quanto si legge ancora nel report, non è mai stata così minacciata e “l'indicatore globale” di Rsf non è mai stato così alto. Nell'ultimo anno, quasi due terzi dei paesi (62,2 per cento) ha fatto registrare una deteriorazione della situazione, mentre il numero di paesi in cui la libertà dei media si può definire “buona” è scesa del 2,3 per cento.

Il Medio Oriente e il Nord Africa restano i luoghi con più difficoltà al mondo e le regioni più pericolose per i giornalisti. Situazione complicata anche tra l'est Europa e l'Asia centrale.

La zona dell'Asia Pacifica vive una situazione globalmente meno drammatica, ma detiene molti record negativi. Due dei suoi paesi, Cina e Vietnam, sono tra le più grandi prigioni per giornalisti e blogger. In quella zona ci sono inoltre alcuni dei paesi più pericolosi per i giornalisti, come Pakistan, Filippine e Bangladesh.

A seguire troviamo l'Africa e le Americhe, dove Cuba è l'unico paesi segnato nella “zona nera” dell'indice.

Le regioni in cui la libertà dei media è maggiore sono l'Unione europea e i Balcani, nonostante l'indicatore regionale ha fatto registrare il più grande incremento degli ultimi anni tra il 2016 e il 2017.

Credit: Rsf.org

Il paese che è sceso di più nella classifica nel 2017 è il Nicaragua, perdendo 17 posizioni e arrivando al 92esimo posto.

In un quadro di declino generale, Rsf sottolinea nel rapporto due paesi in cui i miglioramenti continuano e lasciano ben sperare. Sono la Gambia e la Colombia.

L'Italia è un altro dei paesi segnalati per i suoi miglioramenti, in particolare in riferimento al caso dei due giornalisti “che erano stati accusati nel caso Vatileaks 2”. L'Italia rimane comunque “uno dei paesi europei dove più giornalisti sono minacciati”.

La Francia è risalita di sei posizioni ma si tratta semplicemente di un “recupero rispetto all'eccezionale caduta di cui ha sofferto nel 2016 in seguito al massacro di Charlie Hebdo”.

Il paese viene definito come uno in cui “i giornalisti si battono per difendere la loro indipendenza in un crescendo di violenza e in un'ambiente ostile”.

Fonte: The Post Internazionale

martedì 25 aprile 2017

25 aprile, la festa della Liberazione


Oggi si festeggia la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo. Il 25 Aprile è l’anniversario della rivolta armata partigiana e popolare contro le truppe, ormai di occupazione, naziste e i loro fiancheggiatori fascisti della repubblica sociale italiana. Grazie al sangue versato dai partigiani fu possibile dare agli italiani la libertà che era stata negata durante il ventennio di dittatura fascista.

Su Alitalia ha vinto il No all’accordo

Nel referendum i dipendenti hanno rifiutato il piano industriale e i progetti di tagli, e adesso l'ipotesi del fallimento è molto realistica

(ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)

I dipendenti di Alitalia hanno respinto con un referendum il pre-accordo che era stato raggiunto tra la compagnia aerea e i sindacati, con la mediazione dei rappresentanti dei ministeri del Lavoro e dello Sviluppo Economico, per definire i tagli e i licenziamenti da attuare per rilanciare la società: l’affluenza è stata molto alta (circa il 90 per cento degli aventi diritto è andato a votare) e i “no” sono stati il 67 per cento del totale dei voti.
La bozza di accordo era stata concordata tra azienda e sindacati dopo settimane di trattative e scioperi, indetti quando a metà marzo Alitalia aveva annunciato un piano di rilancio aziendale per gli anni 2017-2021 che prevedeva un aumento dei ricavi e un taglio dei costi compresi quelli per il personale e per i salari. I sindacati avevano deciso di sottoporre la bozza di accordo all’approvazione dei 12.500 dipendenti di Alitalia, che hanno votato da giovedì scorso alle 16 di lunedì, in nove seggi tra Milano e Roma. Avevano fatto campagna a favore del sì i sindacati CISL, UIL e UGL, e anche la segretaria della CGIL Susanna Camusso aveva riconosciuto l’importanza della trattativa.

Con il respingimento del pre-accordo, la grave situazione di Alitalia è ulteriormente complicata. Il ministro per lo Sviluppo Economico Carlo Calenda domenica aveva detto che con questo risultato «si va verso il rischio concretissimo di una liquidazione della compagnia», e che il governo «non è intenzionato a mettere ancora soldi pubblici dentro Alitalia». Lo scenario che è stato previsto è quello di un’amministrazione straordinaria, ipotizzata dal ministro dei Trasporti Graziano Delrio: è una procedura istituita nel 2003 dopo la crisi di Parmalat. Prevede che il governo nomini da uno a tre commissari, che nel giro di qualche mese preparino un piano industriale per cessare le attività, riportare la società in attivo oppure venderla a una terza parte (la procedura prevede che l’acquirente mantenga tutti gli attuali posti di lavoro per almeno due anni). Come ha spiegato al Corriere Cesare Cavallini, docente di Diritto fallimentare alla Bocconi, la soluzione dell’amministrazione straordinaria è più complicata per Alitalia, rispetto per esempio a Parmalat o Ilva, perché la società dovrebbe continuare a erogare i propri servizi, con i creditori che vorranno essere pagati subito e il conseguente accumulo di debiti. Questo significa che l’ipotesi di mandare avanti la società nella sua forma attuale, cercando di riportarla in attivo, è molto difficile. Anche trovare un acquirente per una società così grande molto vicina al fallimento è assai arduo, e perciò secondo Cavallini l’ipotesi più probabile è quella che gli eventuali commissari facciano richiesta di fallimento. È anche quello che pensa il presidente di Alitalia Luigi Gubitosi, che nei giorni scorsi ha detto che l’unica possibilità in caso di vittoria del no è «un accompagnamento verso la liquidazione dell’azienda, il fallimento».

Se avesse avuto l’approvazione del referendum, il consiglio di amministrazione di Alitalia avrebbe voluto riunirsi domani per autorizzare una ricapitalizzazione della società per 2 miliardi di euro e ottenere così nuova liquidità. In parte i soldi sarebbero stati ottenuti da una conversione in azioni dei crediti delle banche che avevano prestato soldi ad Alitalia, soprattutto Intesa Sanpaolo e Unicredit. Altri dovevano arrivare da nuovi prestiti e linee di credito, fornite dalle banche stesse. Assieme al piano finanziario, Alitalia avrebbe presentato anche un piano industriale per il rilancio della compagnia: tra le altre cose, aveva spiegato nei giorni scorsi il presidente Luigi Gubitosi, si sarebbero rinegoziati gli accordi con Air France e Delta, i contratti di leasing troppo costosi, l’apertura di nuove rotte a lunga percorrenza, e altri tipi di investimenti.

Nel piano iniziale di Alitalia erano previsti 1.338 esuberi del personale a tempo indeterminato, che nel pre-accordo erano stati ridotti a 980, attraverso il superamento «dei progetti di esternalizzazione delle aree manutentive e di altre esternalizzazioni, il ricorso alla cassa integrazione straordinaria entro il maggio 2017 per due anni, l’attivazione di un programma di politiche attive del lavoro (riqualificazione e formazione del personale) e misure di incentivazione all’esodo, e miglioramenti di produttività ed efficienza». Era previsto anche un taglio dell’8 per cento degli stipendi del personale di volo (inizialmente era del 30 per cento), la riduzione di un o una assistente di volo negli equipaggi a lungo raggio e una riduzione dei riposi dai 120 annuali a 108 con minimo di 7 al mese. Ma il referendum tra i lavoratori ha ora rifiutato anche questo approccio. I dati sono così sintetizzati dal Sole 24 Ore:


A Milano (dove il personale Alitalia è costituito da piloti e assistenti di volo) ha stravinto il no. A Linate i voti contrati sono stati 698 no e i favorevoli 153. A Malpensa i no sono stati 278, i sì 39 (2 bianche e 2 nulle). A Roma, il primo parziale risultato, relativo all’urna che accoglieva i voti del personale di volo (non di quello di terra), mostrava a Fiumicino in netto vantaggio il no con 2315 voti, contro 226 sì. I seggi per votare a Roma erano sei, di cui cinque a Fiumicino e uno alla Magliana. La proclamazione dell’esito del referendum è atteso in nottata.


Il piano originale per il rilancio di Alitalia era stato deciso per provare a risolvere l’ennesima crisi della compagnia aerea, che ora appartiene per il 51 per cento alla cordata di imprenditori italiani CAI, e a Etihad, che di fatto la gestisce con il 49 per cento delle azioni.

Fonte: Il Post

Marine Le Pen lascia temporaneamente la guida del Front National

"Stasera non sono più la presidente del Front National, sono la candidata alle presidenziali", ha annunciato la candidata di estrema destra.

Marine Le Pen

Marine Le Pen, che ha ottenuto il 21,3 per cento dei voti al primo turno e che sfiderà Emmanuel Macron al ballottaggio del 7 maggio 2017, ha annunciato di aver temporaneamente lasciato la guida del Front National.

“Ho sempre pensato che il presidente della Repubblica sia il presidente di tutti i francesi e che debba riunire tutti i francesi. È per questa ragione che mi è sembrato indispensabile mettermi in congedo dalla presidenza del Front National. Stasera non sono più la presidente del Front National, sono la candidata alle presidenziali”, ha dichiarato.

Fonte: The Post Internazionale

lunedì 24 aprile 2017

Gabriele Del Grande è tornato in Italia

Il documentarista italiano era stato liberato questa mattina, dopo avere passato due settimane in carcere in Turchia

Gabriele Del Grande insieme al ministro degli Esteri Angelino Alfano al suo arrivo all'aeroporto di Bologna, il 24 aprile 2017 (LaPresse - Massimo Paolone)

Gabriele Del Grande, giornalista e documentarista italiano di 35 anni che da due settimane era detenuto in Turchia, è stato liberato ed è tornato in Italia. La notizia della liberazione di Del Grande era stata confermata dal ministro degli Esteri italiano, Angelino Alfano, che aveva detto di avere avvisato i familiari di Del Grande dopo avere ricevuto dal suo collega turco, Mevlut Cavusoglu, informazioni sulla liberazione. Del Grande è arrivato all’aeroporto di Bologna questa mattina, intorno alle 10.30.



Gabriele Del Grande, che è di Lucca, era stato fermato dalla polizia ad Hatay, nella provincia sud-orientale al confine con la Siria, e tra il 9 e il 10 aprile era stato portato in carcere. Il ministero degli Esteri italiano aveva confermato la notizia, e dato informazioni sulle sue buone condizioni il 15 aprile, mentre solo il 18 Del Grande aveva potuto fare una telefonata verso l’Italia, comunicando a familiari e amici di trovarsi a Muğla, nella parte sud-occidentale della Turchia. Il ministero degli Esteri italiano aveva chiesto in più occasioni la sua liberazione “nel pieno rispetto della legge”.

Del Grande aveva raggiunto la Turchia il 7 aprile scorso per realizzare interviste a profughi siriani per il suo nuovo libro Un partigiano mi disse, dedicato alla guerra in Siria e alla formazione dello Stato Islamico (o ISIS). Secondo il governo turco, Del Grande si era spinto in una zona di confine nella quale non è consentito l’accesso ai giornalisti, da qui la decisione di arrestarlo. In un primo momento sembrava che la Turchia fosse intenzionata a espellere Del Grande entro poche ore dall’arresto, ma ciò non era avvenuto e la situazione si era fatta più complicata, con difficoltà da parte del ministero degli Esteri italiano a ottenere informazioni sulle sue condizioni.

Il 18 aprile il ministero degli Esteri aveva diffuso una nota nella quale confermava il proprio impegno, e quello dell’ambasciata italiana ad Ankara, per ottenere la liberazione di Del Grande. Il 21 aprile il documentarista aveva incontrato in carcere il console italiano e un avvocato di fiducia, per la prima volta dal momento del suo arresto. La vicenda e la scarsità di informazioni sulla prigionia avevano portato nei giorni scorsi a campagne e iniziative sui social network, coordinate con l’hashtag #iostocongrabriele.

Fonte: Il Post

I risultati delle elezioni presidenziali francesi

Al ballottaggio sarà sfida tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen

Al terzo posto è arrivato il candidato Repubblicano Francois Fillon, leggermente davanti rispetto all'esponente della sinistra radicale Melenchon

Quando lo spoglio dei voti è quasi concluso (mancano ancora i dati definitivi di un dipartimento che non potranno comunque cambiare gli equilibri in campo) viene confermato, come dai primi exit poll, il ballottaggio tra il candidato indipendente di En Marche! Emmanuel Macron e la leader del Front National Marine Le Pen.

Il centrista Macron ha raccolto il 23,8 per cento delle preferenze, contro il 21,4 per cento di Le Pen. Dietro di loro il candidato repubblicano Francois Fillon, di poco davanti all'esponente della sinistra radicale Jean-Luc Melenchon.

Qui i risultati dei candidati principali:

Emmanuel Macron (En Marche!) 23,8

Marine Le Pen (Front National) 21,4

Francois Fillon (Repubblicani) 19,9

Jean-Luc Melenchon (La France insoumise) 19,6

Benoit Hamon (Socialisti) 6,3

Nicolas Dupont-Aignan (Debout la France) 4,7

Jean Lassalle (Resistons) 1,2 Philippe Poutou (NPA) 1,1

Gli altri candidati hanno raccolto meno dell'1 per cento delle preferenze. In totale si sono presentati alla corsa all'Eliseo 11 candidati.

Subito dopo i primi exit poll, sia il candidato Repubblicano che quello Socialista hanno ammesso la sconfitta e hanno dichiarato il loro sostegno, in vista del ballottaggio, a Macron, per sconfiggere l'estrema destra di Marine Le Pen. Ha fatto sapere di lasciare libertà di coscienza, invece, il candidato della sinistra radicale Melenchon.

Macron si è affermato soprattutto nella zona ovest della Francia e nelle grandi città. Risultati migliori per Le Pen in tutta la parte est del paese e nei piccoli centri.

L'affluenza al voto è stata del 78 per cento, circa due punti percentuali in meno rispetto al 2012.

Il movimento En Marche! di Macron non si era mai presentato prima alle elezioni. Il Front National ha invece raccolto il miglior risultato della sua storia (anche se era già arrivato al ballottaggio con Jean-Marie Le Pen, padre di Marine e fondatore del partito, nel 2002), superando quota 7 milioni di voti.

Per la prima volta nella storia della quinta Repubblica né il partito Socialista né quello Repubblicano hanno raggiunto il ballottaggio. I due partiti, finora, avevano sempre governato il paese.

Nella serata del 23 aprile, subito dopo la diffusione dei primi dati, sono iniziate alcune manifestazioni di protesta in piazza, terminate con degli scontri, in particolare in alcune strade di Parigi. Qualche manifestante è rimasto lievemente ferito.

Fonte: The Post Internazionale

sabato 22 aprile 2017

Il ciclista Michele Scarponi è morto in un incidente stradale

Il vincitore del Giro d'Italia 2011 è stato investito in sella alla sua bici mentre si allenava alle porte di Filottrano, suo paese natale in provincia di Ancona


Il ciclista italiano Michele Scarponi è morto in un incidente stradale mentre si allenava alle porte di Filottrano, suo paese di origine in provincia di Ancona. Lo riporta l'agenzia di stampa Ansa a cui la notizia è stata confermata dal presidente della Federciclismo, Renato Di Rocco.

Scarponi è stato investito frontalmente da un autocarro mentre era in sella alla sua bici ed è morto sul colpo. L'incidente è avvenuto intorno alle 8 di stamattina e sull'accaduto indagano i carabinieri di Filottrano e Osimo.

Il ciclista aveva 37 anni e venerdì 22 aprile aveva concluso al quarto posto il Tour of the Alps, dove aveva vinto la prima tappa il lunedì precedente.

Professionista dal 2002, aveva vinto nel 2009 la Tirreno-Adriatico e nel 2011 il Giro d'Italia grazie alla squalifica per doping dello spagnolo Alberto Contador. L'ultimo suo successo risale al 2013 quando si è aggiudicato il Gp Costa degli Etruschi. Attualmente portacolori dell'Astana, Scarponi ne era stato nominato capitano per il prossimo Giro d'Italia, al via il 5 maggio, per il forfait di Fabio Aru. Scarponi lascia la moglie e due gemellini in tenera età.

Fonte: The Post Internazionale

Radiato per la prima volta in Italia un medico antivaccini

Roberto Gava è il primo medico radiato dall'Ordine per il suo “comportamento non etico e antiscientifico nei confronti dei vaccini”

Credit: Reuters

Roberto Gava è il primo medico radiato dall'Ordine per il suo “comportamento non etico e antiscientifico nei confronti dei vaccini”. Ad annunciarlo è stato, in un tweet, il presidente dell'Istituto superiore di Sanità (Iss), Walter Ricciardi.

“Grazie all'Ordine dei medici di Treviso per aver radiato primo medico per il suo comportamento non etico e antiscientifico nei confronti dei vaccini”.

Il medico radiato dall'Ordine è noto per le sue tesi contro le vaccinazioni.

Secondo Ricciardi, la decisione dell'Ordine dei Medici di Treviso di radiare il cardiologo Roberto Gava per le sue posizioni contro i vaccini è “un passaggio importantissimo, che deve essere un segnale per tutti i medici che non si comportano secondo la deontologia”.

“Il comportamento dell'Ordine, così come quello degli altri che stanno procedendo in modo simile e della presidente della Federazione Chersevani, va apprezzato per coraggio ed etica”, ha aggiunto.

“In tutti i paesi del mondo seri si agisce così, visti i danni che queste posizioni possono provocare la radiazione è una misura più che giustificata. In Italia stiamo vedendo gli effetti delle campagne contro i vaccini, con i tassi di copertura che sono crollati”, ha concluso Ricciardi.

Fonte: The Post Internazionale

Dodici persone sono morte durante le proteste in Venezuela

Nella notte del 21 aprile 8 di loro sono morti fulminati mentre saccheggiavano un negozio, altri due sono stati uccisi da colpi d'arma da fuoco

L'opposizione venezuelana ha annunciato nuove mobilitazioni contro il governo di Nicolas Maduro, convocando una “marcia del silenzio”. Credit: Reuters

Un uomo è stato ucciso con colpi d'arma da fuoco durante le proteste contro il presidente Nicolas Maduro a Caracas, la capitale del Venezuela, nella notte del 21 aprile.

Secondo quanto riportato dall'agenzia di stampa Ansa nella notte sarebbero morte dodici persone. Otto di loro sarebbero morte fulminate mentre cercavano di saccheggiare un forno nella città di Caracas. Altri due, invece, sono stati uccisi da spari di arma da fuoco. Non ci sono, però, ulteriori dettagli sulla morte degli altri due.

Durante la notte del 21 aprile circa 20 negozi sono stati saccheggiati.

La nona vittima confermata dall'inizio delle proteste è Melvin Guaitan, ucciso a Sucre, nell'hinterland di Caracas. La notizia è stata data su Twitter dal sindaco della località, Carlos Ocariz. Si tratta della quarta vittima negli ultimi tre giorni.

“Chiediamo che i responsabili di quanto accaduto vengano puniti”, ha scritto Ocariz. Il sindaco ha detto che la nuova vittima si chiamava Melvin Guaitan, definito “un semplice lavoratore” che è stato “ucciso durante una protesta all'ingresso del Barrio 5 de julio”, un quartiere popolare del nord della capitale venezuelana.

“Questa opposizione fallita e ferita sta provando a generare caos nelle aree chiave della città per convincere il mondo che stiamo vivendo una guerra civile, la stessa strategia usata per la Siria, la Libia e l'Iraq”, ha affermato Freddy Bernal, esponente del partito Socialista. Il governo continua a resistere e invocare la fine delle proteste.

Le manifestazioni sono iniziate dopo la decisione della Corte Suprema, avvenuta il 30 marzo, con la quale la stessa corte aveva assunto momentaneamente i poteri del parlamento, di sostanza esautorandolo.

Dopo la manifestazione dell'opposizione del 20 aprile a Caracas, bloccata dalle forze dell'ordine che hanno impedito il passo dei cortei, nella notte si sono registrati scontri violenti fra militanti oppositori, unità della Guardia Nazionale e gruppi armati pro governativi, i cosiddetti colectivos. Nella zona di El Valle (sud di Caracas), dove i residenti hanno denunciato saccheggi e scontri violenti con spari di arma da fuoco, 54 bambini sono stati evacuati dall'Ospedale Materno Infantile Hugo Chavez durante la notte.

La ministra degli Esteri venezuelana, Delcy Rodriguez, ha denunciato su Twitter che “bande armate finanziate dall'opposizione hanno attaccato l'ospedale infantile di El Valle”, ma decine di testimonianze sullo stesso social network indicano che i bambini sono stati evacuati dopo essere stati intossicati dai gas lacrimogeni sparati dalla Guardia Nazionale.

Almeno cinque persone sono rimaste ferite nel corso di saccheggi avvenuti durante la notte in una strada commerciale a El Valle, dove i vicini hanno denunciato che le unità antisommossa che si trovavano a meno di 300 metri non sono intervenute per fermare i responsabili dell'assalto contro negozi locali.

L'opposizione venezuelana ha annunciato nuove mobilitazioni contro il governo di Nicolas Maduro, convocando una “marcia del silenzio” per il 22 aprile in omaggio alle vittime della repressione e un blocco delle principali autostrade del paese per lunedì 24 aprile.

Il vicepresidente del parlamento di Caracas, Freddy Guevara, ha chiesto agli oppositori di “sfilare in silenzio e vestiti di bianco verso le sedi della conferenza episcopale a Caracas e in tutto il paese” per rendere omaggio alle persone uccise durante le manifestazioni.

Fonte: The Post Intenazionale

Attacco talebano in una base militare afghana, oltre cento morti

Gli aggressori erano sei persone distribuite in due veicoli militari e hanno passato il cancello sostenendo di trasportare soldati feriti

Gli aggressori hanno usato granate e fucili. Credit: Reuters

Oltre cento soldati afghani sono stati uccisi o feriti da talebani vestiti con l'uniforme dell'esercito afghano che hanno compiuto un attacco in una base militare in Afghanistan venerdì 21 aprile 2017. Un ufficiale statunitense in precedenza aveva detto che il bilancio di persone uccise era di oltre 50, ma un funzionario di Mazar-i-Sharif, la città nella parte settentrionale nel paese dove è avvenuto l'attacco, ha detto che il numero di morti è di almeno 140.

Altri funzionari hanno detto che il bilancio potrebbe essere ancora più alto.

L'attacco è stato lanciato vicino ad una moschea nella base militare di Mazar-i-Sharif, la capitale della provincia di Balkh. Secondo quanto riportato dal portavoce dell'esercito, Nasratullath Jamshidi, i soldati colpiti stavano lasciando la preghiera del venerdì al momento dell'aggressione.

Gli aggressori erano dieci persone, distribuite in due veicoli militari e hanno passato il cancello sostenendo di trasportare soldati feriti e di aver bisogno di entrare con urgenza. Poi hanno usato granate e fucili per commettere la strage.

Nella base militare si trovano anche soldati di altri paesi, in particolare tedeschi. “Per quanto sappiamo, nessun tedesco è rimasto coinvolto nell'attacco”, ha riferito il portavoce del commando delle operazioni tedesche.

Il portavoce talebano Zabihullah Mujahid ha detto che i “combattenti hanno inflitto varie ingenti perdite all'esercito afghano".

Fonte: The Post Internazionale

venerdì 21 aprile 2017

I cellulari fanno venire il cancro?

Se ne riparla dopo la controversa sentenza di Ivrea, dove un giudice ha riconosciuto un “nesso di causalità” benché non ci siano ancora prove scientifiche chiare

(JOSEP LAGO/AFP/Getty Images)

A Ivrea, in provincia di Torino, un giudice del lavoro ha stabilito che esiste un “nesso di causalità” tra l’utilizzo dei telefoni cellulari e una particolare forma di tumore. La sentenza ha pochi precedenti in tutto il mondo e sta facendo molto discutere perché a oggi non è mai stato dimostrato scientificamente, e in modo incontrovertibile, che le onde radio emesse dai cellulari possano causare alcuni tipi di cancro. Non è il primo caso in cui un magistrato stabilisce un principio non ancora verificato dalla scienza: negli anni scorsi è accaduto più volte per il caso Stamina o sui vaccini, con molte polemiche e critiche da parte della comunità scientifica e successive revisioni delle sentenze negli altri gradi di giudizio.

La sentenza di Ivrea riguarda Roberto Romeo, un dipendente di Telecom Italia di 56 anni, che lavorava come responsabile di una squadra di tecnici che interveniva per riparare i guasti sulla rete telefonica. Alla Stampa ha spiegato che faceva di continuo telefonate per coordinare il suo gruppo di lavoro, restando tra le 4 e le 5 ore al cellulare ogni giorno, per circa 15 anni. Romeo aveva iniziato ad avere qualche problema di udito, trattato con terapie che si erano rivelate inutili, fino a quando non gli era stato diagnosticato un neurinoma, un tumore benigno del nervo acustico, uno dei più frequenti tra quelli intracranici e le cui cause sono ancora sconosciute. Romeo era stato sottoposto a un’operazione di rimozione del neurinoma, con conseguente perdita dell’udito da un orecchio.

In seguito Romeo aveva fatto causa all’INAIL, che non gli aveva riconosciuto una malattia professionale. Dopo una perizia di parte e un accertamento tecnico, affidato dal tribunale, si è andati a processo. Sono stati ascoltati 15 testimoni, che hanno confermato la versione di Romeo circa le sue ricorrenti telefonate per coordinare il loro lavoro. Valutate le perizie e le consulenze, il tribunale ha infine stabilito che il neurinoma sia stato causato da un “uso prolungato” del cellulare, riconoscendo a Romeo un’invalidità al 23 per cento, che comporterà una pensione INAIL aggiuntiva di circa 6mila euro l’anno.

La sentenza di Ivrea sta facendo molto discutere perché a oggi non ci sono evidenze scientifiche per dire con certezza che i cellulari causino il cancro. I telefonini sono usati da miliardi di persone in tutto il mondo da decenni, ma non sono stati rilevati aumenti anomali di particolari forme tumorali. Considerata la diffusione di questi dispositivi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità tiene comunque sotto controllo i potenziali effetti dei cellulari sulla popolazione, con iniziative e programmi per la valutazione del rischio. Una delle sue agenzie più importanti, l’International Agency of Research on Cancer (IARC), nel 2011 ha inserito i cellulari nel Gruppo 2B, nel quale sono elencati prodotti e sostanze definiti “possibilmente cancerogeni per gli esseri umani”. Nel complesso la IARC mantiene e aggiorna quattro categorie in cui sono inserite le sostanze a seconda del loro livello di rischio.

Gli elenchi della IARC non implicano che si contragga sicuramente il cancro entrando in contatto con particolari sostanze, ma segnalano il livello di rischio: la probabilità che si verifichi un evento dannoso. Si parla di rischio assoluto quando viene indicata la possibilità che qualcosa succeda in un certo periodo di tempo, come la probabilità teorica per ogni persona di avere una diagnosi di cancro nel corso della vita, quindi in un intervallo di tempo che di solito è tra gli 0 e gli 84 anni. C’è poi il rischio relativo, che indica invece la probabilità di ammalarsi per chi ha già fattori di rischio, come predisposizioni genetiche. Le misure di questo tipo sono ipotetiche e servono soprattutto per rendere comprensibile la rilevazione di certi tipi di tumore su altri, e il loro rapporto con predisposizioni e abitudini di vita.

Negli anni sono state eseguite centinaia di ricerche scientifiche, su animali ed esseri umani, per verificare se le onde radio emesse dai cellulari possano essere nocive. Nella maggior parte dei casi questi studi non hanno trovato un nesso causale tra l’esposizione ai telefonini e particolari malattie, come i tumori. I pochi studi che hanno trovato qualche elemento di correlazione si sono rivelati quasi sempre inconcludenti, perché nel complesso le prove non erano sufficienti e non si potevano escludere altre variabili che avevano causato particolari patologie. Una ricerca, citata dalla IARC, parla di un aumento del 40 per cento del rischio di gliomi (tumori cerebrali) tra chi utilizza molto il cellulare per telefonare (30 minuti al giorno per 10 anni). Uno studio più recente ha però messo in dubbio la stima perché l’aumento dei tumori di quel tipo non è andato di pari passo con l’aumento dell’utilizzo dei cellulari.

A maggio dello scorso anno uno studio diffuso dal National Toxicology Program, un gruppo di lavoro delle autorità sanitarie statunitensi, ha rilevato la formazione di tumori al cervello e al cuore in alcuni esperimenti di laboratorio condotti su ratti, esposti a radiazioni elettromagnetiche analoghe a quelle prodotte dai cellulari. La ricerca è stata però accolta con scetticismo e diverse critiche, soprattutto per le modalità con cui è stata condotta la sperimentazione.

Fonte: Il Post