venerdì 29 gennaio 2016

La Cei: “Le Unioni Civili sono alternative alla famiglia”


I vescovi riprendono parola sul ddl Cirinnà: "Difendiamo la famiglia per come è stabilita nella Costituzione". Dopo le prese di posizione degli scorsi giorni, a margine del Consiglio Episcopale torna ad essere criticata la legge o, per dirla dal punto di vista dei vescovi, vengono riaffermati i valori della famiglia tradizionale.

Unioni Civili: si avvicina il weekend del Family Day e la Conferenza Episcopale Italiana torna a parlare di Unioni Civili, del ddl a prima firma Monica Cirinnà che dovrebbe introdurre nel nostro ordinamento l’istituto delle civil partnership: dopo le prese di posizione degli scorsi giorni, a margine del Consiglio Episcopale torna ad essere criticata la legge o, per dirla dal punto di vista dei vescovi, vengono riaffermati i valori della famiglia tradizionale.

LA CEI: “LE UNIONI CIVILI SONO ALTERNATIVE ALLA FAMIGLIA”

Su Repubblica le parole e le posizioni emerse dall’adunanza dei vescovi italiani.

La Cei spiega che “le difficoltà e le prove della famiglia – e insieme la sua bellezza, centralità e unicità – sono state ampiamente sottolineate dai Vescovi, a ripresa e approfondimento dei contenuti offerti nella prolusione del Cardinal Bagnasco”, ricordando, tra l’altro, “l’identità propria e unica dell’istituto matrimoniale” e “la richiesta di politiche familiari consistenti ed efficaci”.

Negli interventi dei porporati si è, d’altronde, riaffermata “la consapevolezza della missione ecclesiale di dover annunciare il vangelo del matrimonio e della famiglia, difendendo l’identità della sua figura naturale, i cui tratti sono recepiti nella stessa Carta costituzionale”.

E secondo i vescovi l’introduzione nel nostro ordinamento di un istituto come le Unioni Civili sarebbe da leggere nella più ampia crisi dell’Occidente.

L’equiparazione in corso tra matrimonio e unioni civili – con l’introduzione di un’alternativa alla famiglia – è stata affrontata all’interno della più ampia preoccupazione per la mutazione culturale che attraversa l’Occidente

Riporta Quotidiano Nazionale che Massimo Gandolfini, neuropsichiatra portavoce del comitato “Difendiamo i Nostri Figli” che organizza il Family Day, legge le affermazioni di Bagnasco e dei vescovi come un sostanziale appoggio alla manifestazione romana.

“Non è vero che la Cei si tiene fuori” dalla mobilitazione, sottolinea in un’intervista a Repubblica il neuropsichiatra Massimo Gandolfini, portavoce del comitato – il cardinale Bagnasco ha parlato di una grande comunione sui valori e sui principi in una ‘manifestazione condivisibile”.

Fonte: Giornalettismo

Attentato contro una moschea sciita in Arabia Saudita

Nell'attacco, avvenuto nella città di Mahasen, sono morte almeno due persone

Foto diffusa sui social network che mostra la gente che scappa dalla moschea dopo l'attacco

Due persone sono morte e altre sette sono rimaste ferite nell’attacco alla moschea sciita di Imam Rida, nella città di Mahasen, nella regione orientale di al-Ahsa, in Arabia Saudita. A riferirlo è il portavoce del ministero degli interni saudita.

Dopo un’esplosione avvenuta nel cortile, un giovane uomo armato è entrato all’interno del luogo di culto, aprendo il fuoco. Non è ancora stato rivendicato l’attentato, ma ci sono forti sospetti che dietro possa esserci il sedicente Stato islamico, che ha già rivendicato attentati simili contro moschee sciite.

Fonte: The Post Internazionale

C'è un sospettato per l'attentato all'aereo russo in Sinai

Lo riferisce l'agenzia Reuters. Sarebbe un meccanico dell'EgyptAir il cui cugino ha aderito all'Isis


Un meccanico della linea aerea egiziana EgyptAir il cui cugino ha aderito all'Isis in Siria sarebbe sospettato di aver introdotto un ordigno nell'aereo di linea russo esploso mentre era in volo sulla penisola del Sinai il 31 ottobre del 2015. A riportare la notizia è l'agenzia Reuters.

Il volo della compagnia aerea russa Metrojet era partito dall'aeroporto egiziano di Sharm el-Sheikh ed era diretto a San Pietroburgo, ed è esploso mentre era in volo sulla penisola del Sinai causando la morte di tutte le 224 persone a bordo.

L'esplosione è stata poi rivendicata dall'Isis, che ha successivamente reso noto di aver abbattuto l'aereo con un ordigno artigianale introdotto all'interno dell'aereo. Dopo alcune iniziali ricerche, la Russia ha confermato che si trattava di un attentato terroristico e promesso una ricompensa di 47 milioni di euro a chiunque avesse fornito informazioni utili ad individuare i colpevoli dell'attentato.

Nel frattempo, un ufficiale di sicurezza della linea aerea EgyptAir ha riferito che nessuno dei suoi dipendenti sarebbe al momento stato arrestato. Questa notizia è stata confermata anche da un funzionario del ministero dell'Interno egiziano.

Tuttavia, la fonte citata da Reuters - e tenuta anonima - avrebbe detto che il meccanico sarebbe stato arrestato e insieme a lui due poliziotti addetti alla sicurezza dell'aeroporto di Sharm el-Sheikh e un addetto ai bagagli dello stesso aeroporto.

Secondo quanto riferito da Reuters, l'Isis avrebbe saputo che un parente di un suo membro lavorava all'aeroporto di Sharm el-Sheikh e gli avrebbe consegnato l'ordigno da introdurre nell'aereo.

Fonte: The Post Internazionale

giovedì 28 gennaio 2016

Google, dal 2008 al 2013 evasione fiscale per 300 milioni. Il fisco: «Ora paghi»


La Procura di Milano e la Guardia di Finanzia chiedono il conto al colosso del web. Non ci sono al momento indagati: Google potrebbe anche decidere di chiudere in anticipo la partita versando una cifra tra i 220 e i 270 milioni

Dopo Apple, che ha versato al fisco 318 milioni di euro per sanare un evasione di cinque annualità, dal 2008 al 2013, la Procura di Milano e la Guardia di Finanza presentano il conto anche ad un altro colosso statunitense. Stando al «processo verbale di accertamento» che in queste ore viene notificato ai managaer italiani di Google, l’azienda di Mountain View avrebbe evaso il fisco (ancora tra il 2008 e il 2013) per circa 300 milioni. Lo racconta Emilio Randacio su Repubblica:

Dopo l’apertura dell’inchiesta penale per “dichiarazione fraudolenta” da parte del dipartimento guidato dal procuratore aggiunto milanese, Francesco Greco – il sostituto titolare del fascicolo è Isidoro Palma – a Google viene imputato di aver evaso le tasse per una cifra pari a 800 milioni, facendo risultare sede fiscale della società l’Irlanda e non l’Italia. Dopo mesi di trattative tra le parti – accordi trapelati ma poi smentiti, offerte che si aggiravano tra i 150 e i 200 milioni fino a poche settimane fa – l’atto formale firmato dalla Guardia di finanza, mette sostanzialmente Google con le spalle al muro. “Google rispetta le normative fiscali in tutti i Paesi in cui opera. Continuiamo a lavorare con le autorità competenti”, è la replica dell’azienda. 

Come spiega Repubblica non ci sono al momento indagati e d’ora in poi partirà un contenzioso penale ed uno amministrativo, con l’agenzia delle Entrate. Google potrebbe anche decidere di chiudere in anticipo la partita, accettando di versare una cifra tra i 220 e i 270 milioni di euro. In sostanza l’atto formale notificato dalle Fiamme Gialle è solo l’inizio di una battaglia legale:

È stato un calcolo particolarmente difficile quello condotto per arrivare a stimare i circa 300 milioni di evasione. Circa un terzo, sarebbe “l’imponibile sottratto a tassazione”, i due terzi di “ritenute non operate”. I finanzieri, oggi, sono convinti di aver accertato come nel quinquennio incirminato – 2008-2013 – Google Italia abbia registrato gli attivi nei bilanci di altri Paesi – soprattutto in Irlanda – dove la tassazione è favorevole (poco più del 12%) di oltre la metà rispetto a quella del Belpaese. Per chiudere definitivamente la partita, con tutta probabilità, servirà dunque altro tempo.

(Immagine di copertina da archivio Getty Images)

Fonte: Giornalettismo

La peggiore siccità degli ultimi 50 anni in Etiopia

Un etiope su dieci non ha cibo a sufficienza


L'Etiopia è nel bel mezzo della peggiore siccità dagli ultimi 50 anni. Un decimo degli abitanti del paese del corno d’Africa, oltre dieci milioni di persone, non ha cibo a sufficienza. Il bestiame muore di fame e di sete e manca l’acqua per irrigare i campi coltivati.

A lanciare l’allarme è l’organizzazione non governativa Save the Children, secondo cui si tratterebbe di una “emergenza da codice rosso”. Si tratta, secondo la ong, della crisi umanitaria con il più alto livello di emergenza al mondo in questo momento, insieme alla guerra in Siria.

Si prevede che entro agosto nasceranno in Etiopia almeno 350mila bambini, che saranno in grave pericolo a causa della malnutrizione dovuta alla siccità. Oltre ai neonati saranno in pericolo anche le loro madri, che andranno incontro a parti pericolosi e a causa della loro malnutrizione non potranno allattare al seno i figli. “Partorire in condizioni disperate dove non c’è cibo e dove la morte in massa del bestiame priva le madri di una fonte indispensabile di nutrizione per poter allattare, può essere pericolosissimo per i neonati e per le madri stesse” ha dichiarato John Graham, il direttore di Save the Children in Etiopia.

L’ong Save the Children ha chiesto ai rappresentanti politici del paese di farsi portavoce dell’emergenza al summit dell’Unione Africana, che si concluderà il prossimo 31 gennaio, e al quale è atteso anche il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon.

“Non ho mai visto una così debole risposta ad una carestia del genere da parte delle Nazioni Unite o della comunità internazionale”, ha messo in guardia John Graham. La grave siccità sarebbe legata a El Niño, un fenomeno climatico che si verifica in media ogni 5 anni e che interessa l’Oceano Pacifico, che provoca riscaldamento anomalo delle acque, con conseguenze che variano dalla siccità alle inondazioni a seconda delle zone interessate.

L’ufficio per il coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite ha promesso di stanziare un miliardo e 400 milioni di dollari, ma non tutti questi soldi sono ancora stati pagati. L’Etiopia, il secondo paese più popoloso del continente africano, è stata colpita da due stagioni di siccità consecutive, e di conseguenza con due raccolti persi.

“La gravità di questa siccità non somiglia a niente a cui abbia assistito in 19 anni che vivo in questo paese”, ha detto Graham. Due milioni e mezzo di bambini rischiano di non poter continuare ad andare a scuola quest’anno, a causa della siccità. Intanto il numero degli etiopi in fuga dalla carestia continua a crescere. Il governo della Tanzania il 26 gennaio 2016 ha minacciato di rimandare indietro centinaia di migranti etiopi che hanno attraversato illegalmente il confine con il loro paese.

La Tanzania è il paese di transito più trafficato dai migranti che dai paesi del Corno d’Africa vogliono raggiungere il Sudafrica a bordo di camion per migliaia di chilometri, arrivando a pagare ai trafficanti dai mille ai duemila dollari a viaggio.

Fonte: The Post Internazionale

Tutto ciò che dovreste sapere sul virus Zika

L'Oms lancia l'allarme: il virus si sta diffondendo in maniera esplosiva, 21 i paesi già colpiti tra centro e sud America

Credit: Reuters

Il virus Zika si sta diffondendo in maniera esplosiva e allarmante, secondo quanto annunciato il 28 gennaio 2016 dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Margaret Chan, la direttrice generale, si è detta preoccupata del fatto che ormai il virus si è diffuso velocemente in oltre 21 paesi del centro e sud America.

Sono tra i tre e i quattro milioni le persone che potrebbero essere contagiate, secondo gli esperti dell’Oms.

L’arrivo del virus in alcuni casi è stato associato all’aumento di nascite di bambini affetti da microcefalia, ovvero nati con teste più piccole del normale e, di conseguenza, danni cerebrali.

La relazione causale tra virus e malformazione non è stata ancora confermata, ma gli scienziati hanno numerose prove per sospettarlo.

In risposta all’allarme, la direttrice generale dell’Oms ha convocato un comitato di emergenza, che si riunirà il primo febbraio, per fornire consulenza e suggerire misure specifiche ai paesi colpiti.

Intanto Lawrence Gostin, un esperto di sanità pubblica della Georgetown University, ha avvertito che il virus Zika ha un potenziale pandemico esplosivo, data anche l’imminenza delle Olimpiadi di Rio de Janeiro, in programma nell’estate del 2016.

Gosting ha fortemente criticato la risposta dell’Oms poco efficace e troppo tardiva al virus Ebola, auspicandosi che l’organizzazione non commetta gli stessi errori anche in questo caso.

Ma cos’è esattamente questo virus che sta seminando il panico in tutto il continente americano?

Quando è stato isolato? Il virus è stato isolato nel 1947, da una scimmia nella foresta Zika in Uganda, da cui prende anche il nome. Da allora ha causato piccoli e sporadici focolai in alcune parti dell'Africa e del sudest asiatico.

Il primo caso di contagio su un essere umano si è verificato in Nigeria nel 1954, ma è stato ignorato dalla comunità scientifica per decenni. Ci si è iniziati a interessare al virus solo nel 2007, quando un focolaio è esploso nell’isola di Yap, in Micronesia.

Fino a quel momento i casi di contagio erano stati solo 15. Oltre all’America latina, altri focolai si erano verificati tra il 2012 e il 2013 nel Pacifico, alle isole Salomone, a Fiji e Vanuatu. In Brasile, per ragioni ancora poco chiare, si è ora rapidamente diffuso, arrivando a colpire fino a un milione e mezzo di persone. 

Quando ha iniziato a diventare allarmante la situazione?

Il virus ha iniziato a manifestarsi più diffusamente in Brasile nel mese di maggio del 2015 e si è allargato già in 21 paesi: Argentina, Barbados, Bolivia, Colombia, Repubblica Domenicana, Ecuador, El Salvador, Guiana francese, Guadeloupe, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Martinica, Messico, Panama, Paraguay, Puerto Rico, Saint Martin, Suriname e Venezuela.

Fino al mese di ottobre non era però considerato una minaccia: solo un quinto delle persone che lo contraevano poi effettivamente si ammalava. Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che il virus potesse essere arrivato nel paese nel 2014 in occasione dei mondiali di calcio che avevano attirato visitatori da tutto il mondo.

Il campanello di allarme è suonato però definitivamente a ottobre, quando i medici dello stato federale brasiliano di Pernambuco, nel nordest del Brasile, hanno iniziato a riscontrare un aumento dei bambini nati con microcefalia.

I dati parlano di 3.893 casi totali documentati nel solo 2015 in Brasile, che rimane il paese in assoluto più colpito. Nei 5 anni precedenti al 2015 i casi erano stati invece in media meno di 200 l’anno.

Come si trasmette?

Il virus può essere trasmesso solo dalle zanzare e non da persona a persona, tranne nel caso della madre e del feto. Gli scienziati del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie statunitense hanno scoperto infatti che il virus Zika può trasmettersi dalla madre al feto, dal momento che è stato trovato il virus nel liquido amniotico di donne che avevano in grembo bambini affetti da microcefalia.

La zanzara punge una persona infetta e poi, pungendone successivamente un’altra ne infetta il sangue trasmettendo la malattia. Più precisamente si tratta dell’Aedes aegypti, che è anche il vettore della dengue e della febbre gialla. È un insetto che vive in climi tropicali, ma una zanzara simile, l’Aedes albopictus, riesce a vivere anche più a nord, fino a New York o Chicago in alcune zone dell’Europa meridionale.

Quali sono i sintomi?

I sintomi sono simili a quelli della dengue o della febbre gialla come lieve febbre, eruzioni cutanee, dolori articolari e occhi rossi. Gli scienziati hanno però osservato correlazioni sempre più frequenti con la microcefalia nei bambini e altre malattie autoimmuni o del sistema nervoso negli adulti, tra cui la sindrome di Guillain-Barré, che può portare alla paralisi degli arti. La morte è invece una possibilità pressoché remota. 

Cosa si sta facendo per affrontarlo?

L'unico modo per combattere Zika è quello di eliminare l'acqua stagnante dove le zanzare si riproducono per impedire lo sviluppo delle larve. I governi di tutto il mondo hanno inoltre consigliato alle donne incinte di non recarsi nei paesi dove è in corso l’epidemia. Nel mese di dicembre 2015 il Brasile ha decretato lo stato di emergenza sanitaria nazionale per eliminare ostacoli burocratici per l’acquisto di particolari strumenti come insetticidi o attrezzature per medici e infermieri. Anche l’esercito è stato allertato per aiutare gli operatori sanitari nella disinfestazione. Inoltre, il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie statunitense ha raccomandato a chiunque viaggi nelle aree interessate, di usare repellenti per insetti o zanzariere e indossare pantaloni lunghi e camicie a maniche lunghe.

Esiste un vaccino?

I ricercatori americani hanno iniziato a lavorare su un vaccino. A differenza di quello per Ebola, però, che era stato in cantiere per un decennio prima che scoppiasse l'epidemia in Africa occidentale, questo si trova ancora allo stadio zero, così come i potenziali farmaci antivirali. I ricercatori dell’Università del Texas si sono recati in Brasile per prelevare campioni utili e li stanno adesso analizzando in un laboratorio ad alta sicurezza di Galveston, in Texas.

Fonte: The Post Internazionale

mercoledì 27 gennaio 2016

27 gennaio: giornata della Memoria. Per non dimenticare...


Oggi è la giornata della Memoria, per commemorare le vittime del nazismo e del fascismo, dell'Olocausto. Il 27 gennaio del 1945 furono aperti i cancelli della città polacca di Auschwitz e fu svelato l'orrore del campo di sterminio, delle deportazioni, del genocidio nazista che causò la morte di milioni di persone, soprattutto ebrei. Ricordare la Shoah, conservare nel tempo la memoria di un periodo nero della nostra storia, per non dimenticare l'orrore e le vittime.

La faccenda delle statue coperte, dall’inizio

Come si è arrivati alla criticata decisione di coprire le statue di nudi dei Musei Capitolini durante la storica visita del presidente iraniano Rouhani

Statue coperte ai Musei Capitolini in occasione della visita di Hassan Rouhani a Roma, 25 gennaio 2016 (ANSA/GIUSEPPE LAMI)

Da un paio di giorni i giornali italiani si stanno occupando della storica visita a Roma del presidente dell’Iran, Hassan Rouhani, la prima in un paese europeo da quando è diventato presidente. Oltre a raccontare l’esito dell’incontro con il presidente del Consiglio Matteo Renzi (lunedì) e con il Papa (martedì), diversi giornalisti hanno lungamente scritto della polemica sulle statue di nudi dei Musei capitolini, che sono state coperte per il passaggio di Rouhani in Campidoglio, dove si è tenuto l’incontro con Renzi. L’Iran è infatti una Repubblica islamica con regole molto rigide su diverse questioni, tra cui la rappresentazione di nudi. In diversi si sono detti “indignati” della scelta di coprire le statue, e non solo per la “mancata reciprocità” (le ministre occidentali devono coprirsi il capo col velo quando visitano l’Iran): Michele Serra ha scritto su Repubblica che coprire le statue ha significato «occultare noi stessi», riferendosi alla cultura e alla storia italiane, e ha aggiunto che «l’Islam, o almeno sue parti non trascurabili, no, non sa gestire l’offesa».

Il ministro per i Beni Culturali, Dario Franceschini, ha definito la decisione di coprire le statue “incomprensibile” e ha aggiunto che né lui né Renzi erano stati informati della scelta. Rouhani ha smentito che ci fossero stati contatti precedenti o richieste particolari da parte del governo iraniano.


La notizia è stata ripresa anche da alcuni giornali internazionali – il Guardian, BBC e Le Monde per esempio – i quali hanno scritto che l’Italia ha deciso di coprire le statue per “non offendere” Rouhani. Anche alcuni esponenti politici italiani hanno condannato la decisione: Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, ha detto che «Renzi accoglie con tutti gli onori il presidente dell’Iran, lo stesso “signore” che vorrebbe cancellare Israele dalla faccia della terra» (sarebbe più corretto comunque fare le dovute distinzioni tra Rouhani e il suo predecessore Ahmadinejad: come scrive oggi su Repubblica Roberto Toscano, ex ambasciatore italiano a Teheran, le politiche di Rouhani nei confronti della comunità ebraica in Iran sono state commentate positivamente anche da alcuni giornali israeliani); Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, ha parlato di «indecente sudditanza culturale di Renzi», mentre Sinistra Ecologia Libertà ha pubblicato una petizione su Change.org per chiedere a Renzi «spiegazioni immediate ed ufficiali su una scelta che consideriamo una vergogna e una mortificazione per l’arte e la cultura intese come concetti universali».

Giovanna Vitale ha raccontato su Repubblica alcuni dettagli sulla decisione riguardante le statue. Anzitutto – e questo non è un retroscena – l’accoglienza di capi di stato e di governo stranieri che incontrano il presidente del Consiglio italiano non è organizzata direttamente dal governo, ma dall’Ufficio del Cerimoniale di Stato e per le onoreficenze. L’ufficio del cerimoniale fa capo alla presidenza del Consiglio ma si muove in modo autonomo, salvo che dal governo non arrivino direttive precise o straordinarie rispetto alla prassi. Vitale scrive che la decisione di coprire le statue è stata frutto di un «blitz del Cerimoniale di stato a poche ore dell’evento», un «eccesso di zelo che tuttavia non è piaciuto a Palazzo Chigi», vista la successiva polemica che ne è nata. Un episodio simile si era verificato già tre mesi fa, scrive Vitale, durante la visita a Firenze dello sceicco Mohammed Bin Zayed al Nahyan, principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti: il Cerimoniale italiano decise in quell’occasione di coprire un nudo di Jeff Koons con un paravento di carta decorata con dei gigli.

In diversi pensano che la decisione di coprire le statue sia nata proprio da un “eccesso di zelo” per non creare imbarazzi durante l’incontro. Si tratta comunque di una cosa diversa rispetto all’obbligo per le donne straniere a coprirsi la testa quando sono in visita in Iran, che è per l’appunto un obbligo (è previsto dalla legge iraniana: una donna non può stare in un luogo pubblico con la testa scoperta, e vale anche per le donne non musulmane), e per questo ha poco senso parlare di “mancata reciprocità”. Non è chiaro invece se sulla decisione abbia contribuito anche un’eventuale pressione da parte dell’ambasciata iraniana a Roma, anche se è plausibile pensare che Rouhani non sarebbe stato contento di farsi fotografare accanto a delle statue di nudi (peraltro in Iran il 26 febbraio si terranno delle importanti elezioni e diversi candidati che fanno riferimento al campo dei riformisti e moderati – come Rouhani – sono già stati squalificati a vantaggio dei più conservatori). In conferenza stampa a Roma, Rouhani ha detto che la storia delle statue coperte «è una questione giornalistica. Non ci sono stati contatti a questo proposito. Posso dire solo che gli italiani sono molto ospitali, cercando di fare di tutto per mettere a proprio agio gli ospiti, e li ringrazio per questo».

L’incontro a Roma tra Rouhani e Renzi è stato molto importante per la conclusione di alcuni accordi economici, di nuovo possibili dopo la rimozione delle sanzioni legate al nucleare iraniano. Italia e Iran hanno firmato 13 memorandum per un valore di contratti pari a circa 17 miliardi di euro. Dell’interesse delle aziende italiane per il mercato iraniano si parla da tempo, e anche prima della rimozione delle sanzioni l’Italia era uno dei paesi europei più coinvolti nell’economia iraniana. A conclusione dell’incontro Renzi ha parlato anche dell’importanza che il governo iraniano partecipi ai colloqui internazionali per la risoluzione delle crisi che stanno coinvolgendo diversi paesi del Medio Oriente e che hanno delle ripercussioni anche sulla sicurezza italiana (per esempio lo Stato Islamico e il terrorismo). Rouhani ha anche scritto su Twitter che nei prossimi mesi Renzi visiterà l’Iran per rafforzare i rapporti economici tra i due paesi.

Fonte: Il Post

La Danimarca e le confische dei beni ai migranti

Devono lasciare allo stato i beni che valgono più di 1.300 euro, per contribuire alle loro spese di mantenimento e a quelle burocratiche per la richiesta di asilo

Migranti provenienti dalla Siria a Padborg, Danimarca, 6 gennaio 2016 (Sean Gallup/Getty Images)

Il parlamento della Danimarca ha approvato martedì 26 gennaio una legge molto contestata sui migranti, serve a scoraggiare le richieste di asilo e prevede, tra le altre cose, la possibilità di confiscare beni e gioielli ai migranti. La legge era stata presentata il 10 dicembre del 2015 del governo liberale del primo ministro Lars Løkke Rasmussen, che si regge sull’appoggio esterno del Partito del popolo, di destra e con posizioni molto estreme in tema di migrazione; è stata approvata con 81 voti favorevoli e 27 contrari: tra i favorevoli c’era anche il partito socialdemocratico, quello principale dell’ opposizione.

La nuova legge dà alle autorità danesi il potere di perquisire vestiti e bagagli dei richiedenti asilo e degli altri migranti che non hanno il permesso di stare in Danimarca: l’obiettivo è anche quello di trovare beni che possano coprire le spese dell’accoglienza. Ai richiedenti asilo sarà permesso mantenere beni per un importo pari a 10 mila corone danesi, circa 1.350 euro. Il governo ha cambiato due volte la parte del testo relativa alle confische: nella versione finale del testo sono esclusi dalla possibilità di confisca gli oggetti «di valore affettivo speciale» ed è stato aumentato il valore minimo di denaro e beni a partire dal quale è possibile procedere con il sequestro. Inizialmente il tetto minimo era stato fissato a 3 mila corone. Un’iniziativa molto simile è stata introdotta in Svizzera lo scorso 15 gennaio. Le nuove regole della legge danese prevedono anche percorsi più difficili per i ricongiungimenti familiari.

La proposta è stata criticata a livello nazionale dai partiti di sinistra, ma anche da Amnesty International e da altre organizzazioni umanitarie internazionali. Qualche giorno fa il commissario ai Diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks l’aveva definita «lesiva della dignità umana delle persone». La Danimarca è uno dei paesi d’Europa che insieme ad Austria, Germania, Svezia, Norvegia e Francia ha reintrodotto i controlli alle frontiere per fermare i flussi di migranti provenienti dall’est. Nel 2015 ha accolto circa 20 mila richiedenti asilo, un terzo in più rispetto al 2014.

Fonte: Il Post

martedì 26 gennaio 2016

Un’altra inchiesta sul calcio italiano

La procura di Napoli sta indagando calciatori, procuratori sportivi e dirigenti per evasione fiscale e false fatturazioni: sono in corso perquisizioni e sequestri

Gian Mattia D'Alberto / lapresse

Da questa mattina in varie città d’Italia sono in corso perquisizioni della Guardia di Finanza nei confronti di numerosi dirigenti di squadre di calcio di Serie A e Serie B, nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla procura di Napoli per evasione fiscale e false fatturazioni. Secondo alcune agenzie di stampa italiane fra gli indagati ci sono anche il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, l’amministratore delegato del Milan Adriano Galliani, il procuratore sportivo Alessandro Moggi, il presidente della Lazio Claudio Lotito e l’ex dirigente della Juventus Jean-Claude Blanc, ora al Paris Saint-Germain. Questa mattina ci sono state perquisizioni anche nella sede del Milan.

La procura di Napoli, la cui operazione è stata chiamata “fuorigioco”, fa riferimento a un presunto “meccanismo fraudolento architettato per sottrarre materiale imponibile alle casse dello Stato” che avrebbe sfruttato la compravendita di giocatori tra il 2009 e il 2013 grazie ad un accordo tra procuratori e dirigenti. Agli indagati sono stati sequestrati complessivamente circa 12 milioni di euro; le società di calcio coinvolte sono 35. Secondo il procuratore aggiunto di Napoli Vincenzo Piscitelli e i pm Stefano Capuano, Vincenzo Ranieri e Danilo De Simone, i procuratori dei calciatori “provvedevano a fatturare in maniera fittizia alle sole società calcistiche le proprie prestazioni, simulando che l’opera di intermediazione fosse resa nell’interesse esclusivo dei club, mentre di fatto venivano tutelati gli interessi degli atleti assistiti dagli agenti medesimi”. Sempre secondo la procura si tratterebbe di un fenomeno ampiamente diffuso. Il sito di Repubblica cita tutti i nomi degli indagati:


Otto procuratori sportivi: Alessandro Moggi, Marco Sommella, Vincenzo Leonardi, Riccardo Calleri, Umberto Calaio’, Adrian Leonardo Rodriguez, Fernand Osvaldo Hidalgo, Inev Alejandro Mazzoni e Edoardo Luis Rossetto.


Trentasette dirigenti societari: Antonio e Luca Percassi, Claudio Garzelli, Giorgio Perinetti, Luigi Corioni, Gianluca Nani, Sergio Gasparin, Pietro Lo Monaco, Igor Campedelli, Maurizio Zamparini, Rino Foschi, Daniele Sebastiani, Andrea Della Valle, Pantaleo Corvino, Alessandro Zarbano, Enrico Preziosi, Luciano Cafaro, Jean Claude Blanc, Alessio Secco, Claudio Lotito, Marco Moschini, Renato Cipollini, Aldo Spinelli, Adriano Galliani, Aurelio De Laurentiis, Tommaso Ghirardi, Pietro Leonardi, Pasquale Foti, Edoardo Garrone, Umberto Marino, Massimo Mezzaroma, Roberto Zanzi, Giovanni Lombardi Stronati, Francesco Zanotti, Sergio Cassingena, Dario Caassingena, Massimo Masolo.


E diciassette calciatori: Gustavo German Denis, Juan Fernando Quintero, Adrian Mutu, Ciro Immobile, Matteo Paro, Hernan Crespo, Pasquale Foggia, Antonio Nocerino, Marek Jankulovski, Cristian Gabriel Chavez, Ignacio Fideleff, Ivan Ezequiel Lavezzi, Gabriel Paletta, Emanuele Calaiò, Cristian Molinaro, Pabon Rios e Diego Milito.


L’indagine è partita nel 2012, quando la Guardia di Finanza perquisì la sede del Napoli e sequestrò i contratti di Ezequiel Lavezzi e Cristian Chavez. Da lì l’indagine si è allargata e nei mesi successivi vennero perquisite le sedi di altre società di calcio, sia di Serie A che di Serie B. Il Milan, attraverso un comunicato ufficiale, ha fatto sapere che le accuse sono del tutto infondate e l’intera inchiesta finirà per essere archiviata. Il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis ha detto che l’inchiesta “è tutta fuffa”.

Fonte: Il Post

Cos’è successo lunedì sera alla stazione Termini a Roma

È stata chiusa per un po' dopo che molti hanno visto un uomo con un fucile, poi fermato dai carabinieri: l'arma era un giocattolo

La polizia in stazione Termini dopo le segnalazioni di un uomo armato di fucile, Roma, 25 gennaio 2016. (ANSA/DOMENICO PALESSE)

Lunedì sera molte persone hanno segnalato alla polizia ferroviaria e al 113 la presenza di un uomo armato con un fucile nella stazione ferroviaria di Roma Termini: la polizia e l’esercito – stando a quanto ha scritto il Messaggero – sono subito arrivati in stazione, hanno fatto allontanare le persone dai binari, che sono fuggite nell’antistante piazza dei Cinquecento, e hanno cercato l’uomo. Repubblica scrive che indossava «una giacca celeste, pantaloni scuri, cappellino bianco e azzurro e scarpe a punta» – come mostra anche un video girato dalle telecamere di sicurezza – e che pareva essere straniero. Alle 20:30 la stazione e i negozi sono stati riaperti, le metropolitane sono tornate in funzione ed è ripresa la circolazione ferroviaria, come hanno confermato le Ferrovie dello Stato su Twitter. Poco dopo le 21 i carabinieri hanno detto di aver arrestato ad Anagni, circa 60 chilometri a sud-est di Roma, un italiano di 40 anni: il fucile che portava era un’arma giocattolo che aveva comprato per suo figlio. Secondo i giornali l’uomo soffre di problemi psichici, ma non ci sono conferme.

Fonte: Il Post

Attentato dell'Isis a Homs

Almeno 20 persone sono rimaste uccise in un attentato suicida dell'Isis nella città siriana di Homs, controllata dalle truppe fedeli ad Assad


Più di 20 persone sarebbero rimaste uccise e un centinaio ferite in seguito a un doppio attacco suicida nella città di Homs, Siria avvenuto il 26 gennaio. Secondo quanto reso noto dal governatore della provincia di Homs, Talal Barazi, due attentatori si sarebbero accostati in macchina a un checkpoint nel quartiere di al-Zahraa.

Uno dei due sarebbe sceso dall’autovettura prima che il compagno detonasse la propria bomba mentre era ancora a bordo. Nel caos seguito alla prima esplosione, il secondo attentatore avrebbe fatto esplodere anche la sua carica. Il direttore dell’Osservatorio siriano per i diritti umani (Ondus), Rami Abdel Rahman, ha dichiarato che il secondo attentatore vestiva un'uniforme militare.

L’Isis ha rivendicato l’attentato online, fornendo una versione leggermente diversa della dinamica dell’attacco: uno dei suoi combattenti avrebbe guidato la propria auto carica di esplosivo verso un checkpoint nel quartiere di al-Zahraa, dove si sarebbe fatto esplodere uccidendo almeno 30 persone.

Secondo quanto riportato dall’agenzia di stato Sana, il primo ministro siriano, Wael Halaqi, avrebbe cripticamente dichiarato che gli attacchi terroristici, col sostegno di alcuni paesi non specificati, colpiscono la popolazione siriana in ritorsione ai recenti successi dell’esercito siriano su vari fronti, facendo riferimento alla cattura di Rabiya, nella provincia costiera di Latakia, e di Sheikh Miskeen, nei pressi di Dara’a, verso il confine meridionale con la Giordania.

Homs, un tempo considerata uno dei centri nevralgici della rivoluzione siriana, è oggi sotto il controllo quasi completo delle forze governative. Il quartiere di al-Zahraa, prevalentemente alawita, era già stato obiettivo di attentati. Il 28 dicembre 2015, due attacchi simultanei avevano causato la morte di 19 persone, ferendone gravemente altre 43.

Fonte: The Post Internazionale

lunedì 25 gennaio 2016

L'Isis ha diffuso un nuovo video sugli attacchi di Parigi

Nel video sono mostrati gli autori dell'attentato di Parigi


L'Isis ha diffuso un video in cui mostra nove dei sospetti autori degli attentati di Parigi del 13 novembre prima di compiere l'attacco.

Nel filmato alcuni di questi uomini sono mostrati mentre decapitano alcuni prigionieri in un campo di addestramento in Medio Oriente. Sono inoltre mostrate alcune delle location colpite dai terroristi il 13 novembre a Parigi.

Il presidente francese Francois Hollande ha riferito che il video non fermerà la Francia dalla sua lotta contro il terrorismo.

Sempre secondo Hollande, gli attacchi di Parigi sarebbero stati pianificati in Siria e organizzati in Belgio.

Nell'attentato di Parigi sono morte 130 persone. Nove degli 11 autori dell'attacco sono morti, mentre due sono ancora in fuga.

Fonte: The Post Internazionale

La rivoluzione egiziana, cinque anni dopo

Il 25 gennaio del 2011 migliaia di egiziani scendevano in piazza per chiedere riforme costituzionali. Cinque anni dopo, non tutto è andato come si sarebbero aspettati

di Silvia Rocchetti


"Chi ha paura del 25 Gennaio?" titola Reuters in un articolo sulla situazione in Egitto a pochi giorni dall'anniversario della Primavera Egiziana, cominciata con le proteste in piazza Tahrir.

Alcuni attivisti hanno lanciato l'hashtag انا_شاركت_في_ثورة_يناير # (Io ho partecipato alla rivoluzione di gennaio) sfidando apertamente i servizi di sicurezza che monitorano costantemente i social network e le comunicazioni online.

Per scoraggiare disordini e proteste, il governo dell'ex Generale al-Sisi ha bloccato l'accesso a piazza Tahrir e perquisito cinquemila abitazioni del Cairo a caccia di possibili giovani attivisti, arrestandone alcuni “in via precauzionale” come dichiarato a Reuters da un esponente dei servizi di sicurezza.

Lo scorso giovedì, uno dei palazzi in procinto di essere perquisito è esploso, causando la morte di tre poliziotti.

Il regime ha cercato di utilizzare come arma anche la religione, invitando calorosamente gli Imam a condannare qualsiasi tentativo di sovvertire l'ordine pubblico come atto peccaminoso agli occhi di Dio.

Di sicuro, come suggerito da alcuni analisti, questi sono tutti segnali di un regime sempre più debole che cerca di mantenersi in piedi ad ogni costo. La popolarità del Presidente, un tempo visto come l'uomo che avrebbe risollevato il Paese dall'estremismo Islamico e da un'economia allo sbando, è in costante calo.

Questo si deve in parte ai metodi repressivi del regime, ma forse soprattutto ad un'economia che fatica a ripartire. La classe media, sostenitrice della rivolta contro Mubarak, era in buona parte disposta a chiudere un occhio sul colpo di Stato del 2014 e sui metodi repressivi del regime in cambio di una ripresa economica concreta.

Tuttavia, malgrado il lancio di grandi opere come l'ampliamento del Canale di Suez e la costruzione di una “nuova Cairo”, un quartiere esclusivo e moderno alla periferia della città, la classe media ha visto ben pochi risultati concreti. La retorica presidenziale del pugno di ferro come garanzia di stabilità e quindi di crescita economica comincia senz'altro a vacillare.

Difficile però immaginare un nuovo tentativo di rivoluzione. Il regime è tollerato dalle potenze Occidentali, interessate ad un Egitto stabile ad ogni costo, dato il caos regnante nel resto della regione. Sul fronte interno, sebbene ci sia chi ancora ha voglia di reagire, chi ha sperimentato sulla propria pelle la detenzione, alcuni persino la tortura, ai tempi di al-Sisi è restio a rischiare un secondo arresto, soprattutto non potendo contare sul sostegno politico di un'opposizione, già frammentata nel 2011, e ulteriormente provata dall'arresto di esponenti di spicco dal 2014 ad oggi.

Un esponente del Partito dei Socialisti Rivoluzionari ci ha spiegato che è comunque difficile avvicinare le persone alla politica, molto più che ai tempi di Mubarak. Sebbene il pugno di ferro possa essere un segnale di insicurezza del regime, infatti, semina comunque terrore e senso di impotenza; per ogni ragazzo arrestato, ci ricorda l'attivista dei Socialisti, c'è un fratello, una sorella, un amico, un compagno che hanno paura.

Fonte: The Post Internazionale

Attentato suicida in un mercato di Bodo, in Camerun

Secondo fonti locali sono almeno 25 le vittime. Dietro l'attentato ci sarebbero i miliziani di Boko Haram

Truppe militari in Chad che combattono i miliziani di Boko Haram. Credit: Reuters

Sono almeno venticinque le vittime di un attacco suicida avvenuto lunedì 25 gennaio 2016 nella città di Bodo, nel nord del Camerun. Lo hanno riferito fonti locali. Gli attentatori sono almeno quattro, due dei quali si sarebbero fatti esplodere in un mercato, mentre gli altri due avrebbero attaccato diversi punti d'accesso alla città.

Si sospetta che dietro l'attacco ci siano i miliziani di Boko Haram, ma per il momento non ci sono rivendicazioni ufficiali. Non è la prima volta che la città di Bodo, nel nord del paese, subisce attacchi di questa entità. Alla fine di dicembre 2015, due donne kamikaze si erano fatte esplodere vicino al mercato, ma i residenti erano riusciti a impedire che altri attentatori riuscissero a entrare dentro e farsi esplodere.

L'ultimo attentato suicida in ordine di tempo avvenuto in Camerun risale al 13 gennaio 2016, quando un attentatore suicida si è fatto esplodere in una moschea, nel villaggio di Kouyape, vicino al confine con la Nigeria, provocando la morte di dodici persone.

Le forze militari appartenenti alla coalizione africana anti-Boko Haram sono impegnate a impedire l'avanzata del gruppo islamista attivo soprattutto in Nigeria, Camerun, Niger e Ciad.

Fonte: The Post Internazionale

domenica 24 gennaio 2016

Le foto delle manifestazioni a favore delle unioni civili

Si sono tenute ieri in quasi cento città italiane: c'erano molte bandiere colorate e molte sveglie, soprattutto

La manifestazione in piazza della Scala, a Milano. (Piero Cruciatti / LaPresse)

Ieri si sono svolte in 99 città italiane altrettante manifestazioni dal titolo #svegliatitalia a sostegno del disegno di legge Cirinnà per l’introduzione delle unioni civili, attualmente in esame al Senato. Le manifestazioni più grandi si sono tenute a Milano e Roma, dove hanno partecipato migliaia di persone (il Corriere della Sera dice che a Milano ce n’erano circa 10mila). L’Arcigay, che ha organizzato le manifestazioni assieme ad altri associazioni, ha detto che in tutto alle manifestazioni ha partecipato un milione di persone, anche se cifre del genere sono difficili da verificare. Repubblica ha scritto che fra i membri del governo ha manifestato solamente il ministro all’Agricoltura Maurizio Martina, ma in realtà alla manifestazione di Milano era presente anche il sottosegretario alle Riforme Ivan Scalfarotto.

Clicca qui per vedere le foto delle manifestazioni a favore delle unioni civili

Fonte: Il Post

sabato 23 gennaio 2016

Tappati in casa dalla neve. La bufera che infuria sulla costa orientale degli Stati Uniti

La neve si accumula fuori da una finestra nel quartiere di Capitol hill, a Washington. La bufera che infuria sulla costa orientale degli Stati Uniti, dal North Carolina allo stato di New York, ha causato la morte di otto persone e portato disagi a circa 80 milioni di cittadini. (Jonathan Ernst, Reuters/Contrasto)

Fonte: Internazionale

Per approfondire: La tempesta di neve negli Stati Uniti

Podemos insieme ai socialisti per un nuovo governo del cambiamento in Spagna

Il leader di Podemos Pablo Iglesias ha incontrato il re spagnolo e gli ha proposto di formare un esecutivo con il PSOE alla presidenza e lui vice-premier

Il leader di Podemos, Pablo Iglesias, ha incontrato (in jeans) il re Felipe VI di Spagna.

Il leader di Podemos, Pablo Iglesias, ha incontrato (in jeans) venerdì 22 gennaio 2016 il re spagnolo Felipe VI e ha dichiarato di essere disposto a sostenere i socialisti al fianco di un altro partito anti-austerità, la Sinistra Unita, per superare l'impasse politica in cui si trova la Spagna e riuscire a formare un nuovo governo.

Per la prima volta in 40 anni, il quadro politico che è emerso dopo le elezioni politiche di dicembre del 2015 non è più bipartitico, ovvero quasi perfettamente suddiviso tra due partiti, nel caso spagnolo i conservatori del Partito Popolare (PP) e i socialisti del PSOE.

"Voglio esprimere la nostra volontà di formare un governo del cambiamento con PSOE e Sinistra Unita, un governo che deve essere del cambiamento e del progresso. Vogliamo lavorare con Alberto Garzon - di Sinistra Unita - e Pedro Sanchez - del PSOE - per un governo che abbia al centro del suo programma il cambiamento sociale", ha annunciato Iglesias.

Sanchez, leader dei socialisti, dovrebbe divenire il prossimo primo ministro mentre Iglesias stesso sarebbe vice primo-ministro, nello schema evidenziato dal leader di Podemos durante il suo incontro con il re spagnolo.

(Nella foto qui sotto: Pablo Iglesias di Podemos e il re spagnolo Felipe VI)


Il leader di Podemos ha anche messo in chiaro che nessun esponente socialista del PSOE era ancora a conoscenza della proposta, prima che lui stesso la annunciasse al re, a dimostrazione - secondo Iglesias - di una invariata "lealtà costituzionale".

"La Spagna non può permettersi di aspettare ancora per formare un nuovo governo", ha detto Iglesias facendo riferimento all'incapacità da parte del premier-dimissionario conservatore Mariano Rajoy di trovare una soluzione allo stallo politico spagnolo.

"La Spagna non deve aspettare Rajoy, io sono pronto a lavorare", ha concluso Iglesias.

Il leader del Partito popolare (PP) Rajoy ha ora rinunciato del tutto a formare un nuovo governo dopo che il re gli aveva assegnato l'incarico.

Nelle elezioni politiche tenutesi in Spagna il 20 dicembre del 2015 il Partito popolare, la formazione di centrodestra guidata dal premier uscente Mariano Rajoy, è stata la lista che ha ottenuto il maggior numero di voti, ma non è tuttavia riuscito a ottenere la maggioranza assoluta dei seggi necessaria per poter governare.

Fonte: The Post Internazionale

Non c'è ancora un governo di transizione in Sud Sudan

L'accordo di pace tra governo e ribelli per porre fine alla guerra civile iniziata nel 2013 rischia di essere seriamente compromesso

Migliaia di persone sono state uccise dall'inizio della guerra civile nel 2013.

L'accordo di pace siglato ad agosto del 2015 tra governo e ribelli in Sud Sudan per porre fine alla guerra civile iniziata nel 2013 rischia di essere seriamente compromesso dopo che il paese non è riuscito a formare un governo di transizione.

Migliaia di persone sono state uccise e milioni sono stati costretti ad abbandonare le loro case dall'inizio della guerra civile nel 2013, quando il presidente Salva Kiir accusò l'allora vice-presidente Riek Machar di aver organizzato un colpo di stato.

La formazione di un nuovo governo di transizione, previsto per il 22 gennaio, è un elemento centrale dell'accordo di pace. Ora, se non si raggiunge un compromesso tra i due schieramenti, quell'accordo rischia di saltare.

Il principale punto di disaccordo per cui non è stato ancora formato un governo di transizione riguarda la suddivisione tra ribelli e governo delle nomine per i ministeri.

Secondo l'accordo, il partito del presidente Kiir avrebbe dovuto ottenere 16 ministeri , tra cui quello dell'Istruzione, delle Finanze e della Difesa, mentre i ribelli 10, tra cui l'interno e la gestione del petrolio e della terra.

Il presidente sud-sudanese Kiir - che si è detto da sempre scettico sull'accordo di agosto - ha nominato 28 nuovi governatori in seguito alla sua decisione di incrementare il numero delle province del Sud Sudan da 10 a 28.

I rappresentanti dei ribelli sono arrivati nella capitale del paese, Juba, per tentare di trovare un compromesso e raggiungere la formazione.

Circa quattro milioni di persone rischiano di morire di fame nel paese.

Fonte: The Post Internazionale

venerdì 22 gennaio 2016

Le manifestazioni di domani a sostegno delle unioni civili

Si terranno in più di novanta città italiane (ed alcune anche all'estero) per sostenere l'approvazione del ddl Cirinnà, la cui discussione inizierà il 29 gennaio in Senato

Immagine dal profilo Facebook CONDIVIDILOVE

Per la giornata di domani, sabato 23 gennaio, sono previste più di novanta manifestazioni in tutta Italia a sostegno del ddl Cirinnà, la proposta di legge sulle unioni civili che inizierà ad essere discussa in Senato il prossimo 29 gennaio. Le manifestazioni sono state organizzate da Arcigay, ArciLesbica, Agedo, Famiglie Arcobaleno e da Mit (Movimento identità transessuale) con l’appoggio di altre importanti associazioni come Cgil, Uil, Amnesty, Arci e Legambiente. Sono previste alcune manifestazioni di sostegno anche in altri paesi europei e l’elenco completo di tutte le città in cui si terrà una manifestazione potete trovarlo qui.

L’articolo principale del disegno di legge presentato dalla senatrice Monica Cirinnà del Partito Democratico stabilisce che due persone dello stesso sesso possono costituire un’unione civile mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni. Uno dei punti più discussi continua però ad essere l’articolo 5, in cui si parla della stepchild adoption. La stepchild adoption – che in inglese significa letteralmente “l’adozione del figliastro” – è la possibilità che il genitore non biologico adotti il figlio, naturale o adottivo, del partner. In Italia è già prevista per le coppie eterosessuali sposate da almeno tre anni o che abbiano vissuto more uxorio (“secondo il costume matrimoniale”, cioè in sostanza convivendo) per almeno tre anni ma siano sposate al momento della richiesta. Non è quindi valida per le coppie omosessuali, non essendo riconosciuto il matrimonio né altre forme di unione per le persone gay. La legge Cirinnà, nella sua ultima versione, esclude l’applicabilità dell’istituto dell’adozione legittimante: per le coppie dello stesso sesso unite civilmente non sarà possibile adottare bambini che non siano già figli di uno dei componenti della coppia.

La discussione, come già previsto nei mesi scorsi, non sarà semplice: per la contrarietà di Nuovo Centro Destra, alleato del Pd al governo, e per le nuove resistenze dell’area cattolica del Pd, che sembravano essere almeno in parte superate. In un’intervista al quotidiano il Messaggero di qualche giorno fa, Berlusconi aveva detto che «sulle unioni civili nei prossimi giorni riuniremo i gruppi parlamentari e penso che daremo libertà di coscienza». Dopo una riunione di partito, è stato però dichiarato che Forza Italia voterà contro il ddl. Il prossimo 30 gennaio a Roma ci sarà il Family Day, una manifestazione organizzata da molte associazioni di conservatori in opposizione al riconoscimento delle unioni civili.

Fonte: Il Post

L'attentato di al-Shabaab a Mogadiscio

I militanti del gruppo estremista hanno attaccato con due bombe e una sparatoria il lungomare della capitale somala. 17 le vittime. Un riassunto

Il luogo dell'attacco compiuto dai miliziani di al-Shabaab al Beach View Café di Mogadiscio. Credit: Feisal Omar

Almeno 17 persone sono rimaste uccise in seguito a un attacco avvenuto allo stabilimento Lido della capitale somala Mogadiscio. Una ricostruzione dei fatti:

- L’aggressione da parte di cinque miliziani del gruppo al-Shabaab è iniziata con l’esplosione di una autobomba.

- I terroristi hanno poi aperto il fuoco sulla spiaggia, e quindi sarebbero entrati nel Beach View Café gridando "Allahu akbar" e prendendo in ostaggio le persone che si trovavano all’interno.

- Una seconda autobomba è esplosa un’ora dopo la prima, quando le forze di polizia erano arrivate sul luogo.

- “L’operazione si è conclusa alle 3 del mattino e almeno 17 civili sono stati uccisi”, ha detto il funzionario di polizia Osman Nur all’agenzia Reuters.

- Altre ricostruzioni parlano di più di 20 morti.

- L’attacco è stato rivendicato da al-Shabaab, un gruppo estremista legato ad al-Qaeda. - “Siamo all’interno e abbiamo preso il controllo del locale”, aveva fatto sapere durante l’attacco un portavoce per le operazioni militari di al-Shabaab. “Ci sono molte vittime che si trovano sia all’interno che all’esterno della caffetteria”.

- ”Dopo l’esplosione, ho visto almeno quattro uomini armati fare irruzione nell’hotel e sparare a chiunque fosse dentro e intorno all’albergo”, ha raccontato uno dei testimoni dell’attacco.

- Il gruppo estremista al-Shabaab è attivo dal 2006 e si è alleato con al-Qaeda nel 2012. Il suo obiettivo è quello di rovesciare il governo somalo sostenuto dalle forze occidentali e instaurare una rigida versione della legge islamica in Somalia, paese colpito da continui conflitti da quando è scoppiata la guerra civile nel 1991.

- L’attacco a Mogadiscio arriva a una settimana dall’aggressione a una base dell’Unione africana nel sud della Somalia, vicino al confine col Kenya, in cui un centinaio di soldati kenioti sono rimasti uccisi.

Fonte: The Post Internazionale

21 migranti annegati nel tentativo di raggiungere la Grecia

Le persone erano a bordo di due diverse imbarcazioni dirette verso le isole di Farmakonisi e di Kalymnos

Migranti sbarcano sull'isola di Lesbo in Grecia. Credit: Giorgos Moutafis

21 persone sono morte in due diversi naufragi avvenuti a largo delle isole greche di Farmakonisi e di Kalymnos. La notizia è stata diffusa dalla Guardia costiera della Grecia.

Nelle prime ore del mattino di venerdì 22 gennaio, una imbarcazione di legno con 48 migranti a bordo è affondata nel tentativo di raggiungere l'isola di Farmakonisi nel mar Egeo orientale. Sette persone sono morte nel naufragio, quaranta sono riuscite a raggiungere la terra ferma, mentre una ragazza è stata salvata dai soccorritori.

Una seconda imbarcazione con un numero imprecisato di migranti a bordo è affondata mentre era diretta verso l'isola di Kalymnos. La guardia costiera è riuscita a trarre in salvo 26 persone e recuperato in mare 14 corpi.

Nel corso del 2016 94 persone sono morte nel tentativo di raggiungere l'Europa attraversando il Mediterraneo. Nel 2015 erano state circa 3.800.

Fonte: The Post Internazionale

giovedì 21 gennaio 2016

La sindaco di Quarto si è dimessa


Si è dimessa il sindaco Rosa Capuozzo, travolta dalla polemica sull’inchiesta per infiltrazioni camorristiche nel comune in provincia di Napoli. L’ufficialità è arrivata nel primo pomeriggio di oggi nel corso di una conferenza stampa. “Mi dimetto dalla carica di sindaco” ha detto Capuozzo piangendo. “La mia non è una resa, è un gesto d’amore per Quarto. Ho fatto giuramento e ho rispettato fin che ho potuto gli altri quelli che si sono dimessi forse credevano di fare una gita fuori porta”. Rosa Capuozzo ha anche detto che non si ricandiderà alle prossime elezioni amministrative di Quarto. “Questa è stata una sconfitta per il M5S ed una vittoria per la camorra. Non mi ricandiderò ed in questi 20 giorni non ci sarà alcun ripensamento. Vado via perché non abbiamo i numeri per governare altrimenti sarei rimasta perché volevo dare risposte ai cittadini, non ha senso governare in questo modo”.

Le Unioni civili sono questione di diritti e civiltà


Le unioni civili sono tipologie di convivenza fra due persone, legate da vincoli affettivi e economici, che non intendono utilizzare, perché la legge glielo impedisce, l'istituto del matrimonio, alle quali l’ordinamento giuridico riconosce valenza e attribuisce uno status giuridico.

Le classificazioni delle unioni civili sono molto diverse nel mondo contemporaneo e comprendono una molteplicità di regolamentazioni e di modelli di disciplina: in particolare, le unioni civili possono riguardare coppie di sesso diverso o dello stesso sesso.

In moltissimi Paesi del mondo il diritto si è notevolmente evoluto e non è rimasto affatto indifferente all'evoluzione dei costumi, per cui esiste oggi un gran numero di provvedimenti legislativi che disciplinano le nuove unioni. A mio giudizio si tratta di una sorta di “adeguamento fisiologico” del vivere civile che, ad esempio, esiste in quasi tutti gli Stati membri dell’Unione europea. A questo proposito, non possiamo non riferirci ad un principio che guida la disciplina di questa intricata materia: “Tutti i cittadini dell'Unione hanno gli stessi diritti, indipendentemente dalla loro origine, nazionalità, condizione sociale, dal loro credo religioso o orientamento sessuale”.

L'Italia non ha attualmente una legislazione effettiva per le unioni civili ma finalmente in questi giorni è in discussione in Parlamento un disegno di legge condivisibile.

Il provvedimento legislativo vorrebbe disciplinare le unioni civili per le coppie omosessuali e la convivenza in genere. In sostanza creerebbe un nuovo istituto per coppie dello stesso sesso, introducendole direttamente nel codice civile

Estenderebbe alle unioni civili l'adozione del bambino che vive in una coppia dello stesso sesso, ma che è figlio biologico di uno solo dei due. Stabilirebbe che l’unione civile si sottoscriva di fronte a un ufficiale di stato civile, alla presenza di due testimoni e venga iscritta in un registro comunale.

Sarebbe certificata da un documento che attesti la costituzione dell'unione e che contenga: dati anagrafici, regime patrimoniale, residenza. Si potrà scegliere uno dei due cognomi o decidere di adottare entrambi i cognomi.

L'unione civile non potrà essere realizzata se una delle parti: è ancora sposato, è un minore, salvo apposita autorizzazione, ha un'interdizione per infermità mentale, ha un legame di parentela, è stata condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell'altra.

Per quanto riguarda il regime giuridico ovvero diritti e doveri reciproci, figli, residenza, concorso negli oneri, abusi familiari, interdizione, scioglimento dell'unione si applicheranno gli articoli del codice civile.

Saranno riconosciuti alla coppia diritti di assistenza sanitaria, carceraria, unione o separazione dei beni, subentro nel contratto d'affitto, reversibilità della pensione e i doveri previsti per le coppie sposate.

Non riesco a comprendere quale effetto deleterio possa avere un provvedimento che prende atto di situazioni che ormai esistono della società italiana da molti anni. Se non ricordo male la possibilità di riconoscere il figlio naturale della compagna fu concessa a una coppia molto illustre, più di duemila anni fa.

Io credo che per comprendere questa legge, che ripeto reputo condivisibile e non contrastante affatto con la nostra Costituzione, occorra evitare assolutamente di mettere sui due piatti della bilancia credenze religiose e leggi di uno Stato.

Nel caso si voglia comunque utilizzare questo criterio allora si sappia che nel nostro ordinamento costituzionale le leggi dello Stato prevalgono sulle convinzioni religiose e che in una democrazia rappresentativa quale è la nostra non sono i precetti religiosi a orientare le scelte di una Nazione.

In Italia, invece, cosa sta accadendo?

Io rifletterei su questo assunto: per l’Europa, le unioni civili sono “diritti fondamentali della persona umana”, per l’Italia, dovrebbero essere “distrazioni gravi ed irresponsabili”, per dirla con le parole di sua eminenza. 

Credo sia arrivato il momento di affrontare e disciplinare una volte per tutte questa materia, senza dubbio sintomo di civiltà di un Paese che voglia definirsi evoluto, che riguarda i diritti fondamentali della persona umana.

Gerd Dani

Fonte: FREE ITALIA

Vuoi collaborare con Informare è un dovere? Puoi mandare le tue segnalazioni e/o inviare i tuoi articoli all'indirizzo e-mail andreadl86@yahoo.it

Perché crollano le borse

Nell'ultimo periodo è successo in tutto il mondo: in gran parte per via del prezzo del petrolio, ma ogni paese ha i suoi problemi (in Italia, le banche)

(AP Photo/Richard Drew)

Tutte le principali Borse del mondo sono andate male mercoledì 20 gennaio, alcuni mercati finanziari – come quello brasiliano e giapponese – sono entrati nel cosiddetto “bear market”, un’espressione usata per indicare una perdita superiore al 20 per cento in un dato periodo. In Russia, Argentina e Cina i principali indici di Borsa hanno perso più del 15 per cento solo dall’inizio del 2016. La Borsa di Milano, che è stata tra le migliori nel mondo durante lo scorso anno, sta andando molto male negli ultimi giorni, soprattutto a causa dei problemi di alcuni istituti bancari. Cosa sta succedendo?

Il petrolio, anzitutto
Il prezzo del petrolio continua a scendere velocemente da novembre, fino a qualche mese si riteneva che si sarebbe aggiustato attorno a 40 dollari al barile, ma ora diversi analisti ritengono che potrebbe arrivare anche a 25 se non a 20 dollari al barile. La causa di un prezzo così basso è principalmente nell’offerta, che è aumentata moltissimo anche a causa di una accresciuta produzione interna degli Stati Uniti e, negli ultimissimi giorni, dall’annullamento delle sanzioni imposte all’Iran che gli impedivano di esportare oltre una certa quantità di barili ogni giorno. In breve, la questione è la seguente: i produttori di petrolio ne producono di più ma le persone che lo comprano non ne hanno più bisogno di prima, anzi, e quindi il prezzo di mercato (dettato dall’incontro tra domanda e offerta) si abbassa. Mentre è aumentata l’offerta di petrolio, la domanda è invece diminuita: principalmente per un aumento di efficienza delle industrie che lo utilizzano, che quindi hanno bisogno di minori quantità per produrre le stesse cose di prima, e per la situazione economica della Cina, il cui rallentamento ha causato una diminuzione dei consumi.

La Cina che rallenta
La Cina è la seconda maggiore economia mondiale, ma i suoi ritmi di crescita sono diminuiti molto negli ultimi 6-7 anni. Si tratta comunque di tassi di crescita del PIL molto più alti di quelli di cui sentiamo parlare per i paesi europei o gli Stati Uniti, ma molto più bassi di quelli che possono attirare gli investitori: mentre portare i propri capitali in Cina poteva avere senso per un’economia che cresceva sopra il 10 per cento, potrebbe non averlo per una che cresce al 7. Il rallentamento dell’economia cinese ha molti effetti, anzitutto sulla domanda di petrolio come abbiamo detto, e poi in generale sulle economie con i quali intrattiene rapporti commerciali di grandi dimensioni: si tratta perlopiù di economie emergenti dell’Asia, la crescita delle quali rallenta come quella cinese, riducendo ulteriormente la domanda di petrolio, tra le altre cose.

Il Giappone e la Russia
Entrambi questi paesi se la passano piuttosto male, più degli altri. L’economia russa è fortemente legata alla sua produzione di energia, un più basso prezzo del petrolio quindi la danneggia più di altri. Mercoledì il rublo, la moneta nazionale della Russia, ha raggiunto il valore più basso di sempre nei confronti del dollaro. Anche il Giappone è influenzato dal petrolio, ma con il recente crollo del suo mercato azionario c’entrano molto le esportazioni. Buona parte dell’economia giapponese si basa sulla vendita dei propri prodotti all’estero: quando si compra una cosa prodotta in un altro paese si cambia la propria moneta con quella di quel paese, dell’operazione generalmente se ne occupa la banca che compie la transazione, quindi non ve ne accorgete; questo vuol dire che in realtà quando comprate una cosa dal Giappone, la comprate in yen; se lo yen è caro, sarà più costosa la cosa che volete comprare e magari ci ripenserete o proverete a comprare da qualche altro paese. Questo è un serio problema per il Giappone, poiché lo yen – così come l’oro – è considerato un bene “di rifugio”, cioè uno strumento dove tenere i propri soldi quando le cose nel resto del mercato vanno male: quanta più gente compra yen come bene di rifugio però, tanto più sale il valore dello yen e tanto meno vendono i produttori giapponesi, per il meccanismo spiegato prima.

L’Italia e le banche
Come detto, non c’è praticamente nessuno dei principali mercati azionari che non venga influenzato dalla situazione del petrolio. In Italia però a preoccupare gli investitori c’è anche un problema ulteriore, che riguarda le banche. Alla Borsa di Milano le principali banche italiane pesano molto sul FTSE MIB, l’indice principale, e anche nell’economia reale il settore bancario ha un ruolo particolarmente importante poiché le aziende che hanno bisogno di soldi spesso si rivolgono ai prestiti in banca anziché a finanziamenti sul mercato, tramite obbligazioni. Le banche italiane però non sono messe benissimo a causa di un’ingente presenza nei loro bilanci dei cosiddetti “non performing loans”, crediti per i quali è difficile che i pagamenti vengano effettuati come previsto o che non vengano effettuati affatto. In Italia questi particolari tipi di credito sono il 16,7 per cento (350 miliardi di euro) degli impieghi totali delle banche, cioè di tutte le risorse che le banche possiedono sotto forma di investimento o comunque non in forma “liquida”. In Spagna quella percentuale è il 7 per cento del totale, in Francia il 4 per cento. Ciò che spaventa principalmente gli investitori è il ritardo con cui si sta provvedendo a risolvere questo problema, si parla da tempo dell’istituzione di “bad banks”, scatole vuote che esistono soltanto per tenere in pancia le perdite e vendere i crediti inesigibili a società specializzate nel recuperarne almeno una parte. C’era ancora molta confusione al riguardo nei giorni scorsi e questo ha fatto crollare i titoli di molte banche, soprattutto dell’istituto messo peggio, Monte dei Paschi di Siena. Giovedì le cose stanno andando molto meglio grazie alla notizia che l’Unione Europea sta accelerando le procedure per la creazione di una “bad bank”.

Fonte: Il Post

Cos’è il caso Litvinenko

Marina Litvinenko, vedova di Aleksandr Litvinenko, legge un comunicato dopo la pubblicazione del rapporto ufficiale sulla morte del marito, a Londra, il 21 gennaio 2016. (Kirsty Wigglesworth, Ap/Ansa) 

Sono state rese note il 21 gennaio 2016 le conclusioni dell’inchiesta pubblica britannica sulla morte per avvelenamento dell’ex agente del Kgb Aleksandr Litvinenko, avvenuta il 23 novembre 2006 a Londra. 

Secondo il rapporto di 300 pagine, curato dal giudice sir Robert Owen, c’è una “forte probabilità” che i due killer che lo hanno ucciso fossero agli ordini dei servizi segreti russi, l’Fsb, e che l’operazione fosse autorizzata dal presidente russo Vladimir Putin.

Accusati di aver avvelenato Litvinenko con del polonio, una sostanza radioattiva, al Millennium hotel di Mayfair, nel cuore di Londra, sono due cittadini russi: Andrej Lugovoj e Dmitri Kovtun. Tracce del veleno furono trovate negli alberghi, nei ristoranti e negli altri luoghi pubblici da loro visitati. I due hanno sempre negato le accuse e Mosca si è sempre rifiutata di estradarli nonostante le richieste della giustizia britannica. 

Alcune date chiave del caso Litvinenko

  • 2006
  • 1 novembre. Litvinenko incontra in un hotel di Londra Lugovoj e Kovtun. In seguito vede l’italiano Mario Scaramella che gli consegna un documento sull’omicidio della giornalista russa Anna Politkovskaja. La sera stessa comincia a sentirsi male.
  • 20 novembre. Litvinenko entra in terapia intensiva. L’indagine viene assegnata alla sezione antiterrorismo di Scotland Yard.
  • 23 novembre. Litvinenko muore. In una lettera, scritta prima di morire, accusa il presidente russo Vladimir Putin di essere responsabile della sua morte. Putin nega le accuse denunciando una “provocazione politica”. L’agenzia britannica per la tutela della salute annuncia che Litvinenko è stato avvelenato con il polonio-210, una sostanza altamente radioattiva.
  • 6 dicembre. Scotland Yard, che ha indagato anche a Mosca, definisce “omicidio” la morte di Litvinenko, che viene sepolto il giorno dopo a Londra.
  • 19 dicembre. Fine delle indagini da parte di Scotland Yard in Russia.
  • 2007
  • 22 maggio. La procura britannica incrimina Lugovoj per l’omicidio di Litvinenko e chiede la sua estradizione, che viene rifiutata.
  • 31 maggio. Lugovoj afferma che Litvinenko era un agente dei servizi segreti britannici e li tira in ballo nel suo avvelenamento.
  • 15 giugno. I servizi segreti russi (Fsb) aprono un’inchiesta per spionaggio sulla base delle dichiarazioni di Lugovoj.
  • 16 luglio. Londra annuncia l’espulsione di quattro diplomatici russi.
  • 19 luglio. Mosca replica con l’espulsione di quattro diplomatici britannici, l’interruzione della cooperazione nella lotta contro il terrorismo e la sospensione dei visti per i funzionari britannici.
  • Dicembre. Lugovoj viene eletto nella duma, il parlamento russo, con il partito liberaldemocratico, di estrema destra.
  • 2012
  • 29 febbraio. Kovtun viene accusato di essere il secondo esecutore dell’omicidio di Litvinenko e Londra chiede anche la sua estradizione.
  • 2013
  • 22 luglio. La ministra dell’interno britannica Theresa May annuncia l’apertura di un’inchiesta pubblica sulla morte di Litvinenko.
  • 2016
  • 21 gennaio. Diffusi i risultati dell’inchiesta pubblica. La moglie di Litvinenko, Marina, si dice soddisfatta delle prove schiaccianti presentate e chiede a Londra di imporre delle sanzioni contro Mosca. Il governo britannico convoca l’ambasciatore russo a Londra. May annunci che sono stati congelati i beni di Lugovoj e Kovtun.

Fonte: Internazionale