venerdì 7 agosto 2015

Mistero: per i nuovi assunti della scuola vale o no l’articolo 18?

Secondo Pietro Ichino no, secondo il ministro Marianna Madia sì. Ma il testo della riforma della pubblica amministrazione non risolve il dubbio

Lidia Baratta

Marianna Madia e Matteo Renzi (Getty Images/Franco Origlia)

Al momento sembra il mistero dell’estate. Le domande sono: il Jobs Act vale o no per i dipendenti pubblici? E: l’articolo 18 sarà applicato o no ai 100 mila nuovi assunti della scuola? Nel testo del disegno di legge delega che riforma della pubblica amministrazione, appena approvato in via definitiva, la risposta non si trova. O meglio: poiché non viene specificato, la regola è che vale la legislazione sul lavoro vigente. E quindi il Jobs Act. Che significherebbe, in soldoni, che i contratti a tempo indeterminato del settore pubblico sarebbero a tutele crescenti, quindi con articolo 18 “allegerito”, come quelli del privato. Ma la ministra della Pubblica amministrazione Marianna Madia ha più volte ripetuto che così non è.

Nel quarto capo della riforma della Pa si dice soltanto che «i decreti legislativi per il riordino della disciplina in materia di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche» saranno adottati, sentiti i sindacati, «entro diciotto mesi» dalla data di entrata in vigore della legge. Ma nessun riferimento al fatto che i lavoratori pubblici sono esentati dalle nuove regole del Jobs Act, come ha più volte ribadito anche Matteo Renzi.

«Dove non c’è una disciplina specifica, si applica la disciplina generale, e quindi il Jobs Act», dice Pietro Ichino, giuslavorista e senatore Pd, che già a fine del 2014 si era scontrato con il governo sul tema. «Non lo dico io», spiega Ichino, «basta leggere il comma 2 dell’articolo 2 del Testo unico sul pubblico impiego». Che, in effetti, prevede che in mancanza di una specificazione – che finora non c’è né nel Jobs Act né nella riforma della Pa – le norme vigenti sono valide per tutti. Le precedenti riforme del lavoro, dalla Biagi alla Fornero, hanno sempre chiarito quali norme erano valide per il pubblico impiego e quali no.



Il presidente del Consiglio, però, ripete da sempre che il Jobs Act con i dipendenti pubblici non c’entra, annunciando che le nuove regole sui licenziamenti nella Pa sarebbero arrivate con la riforma Madia. E in una intervista al Foglio il ministro aveva specificato che «con la delega semplificheremo poi i provvedimenti disciplinari per poterli utilizzare concretamente. Oggi lungaggini burocratiche e di altro tipo rendono troppo complicato il meccanismo. A fianco di tale semplificazione, ritengo comunque che il reintegro sul posto di lavoro, per un dipendente pubblico licenziato per motivi disciplinari, debba essere sempre possibile. In questo caso, infatti, chi licenzia, potenzialmente provocando l’esborso di una indennità, non lo fa con i propri soldi ma con quelli dei cittadini. Ci deve essere la possibilità di porre rimedio a scelte sbagliate, nell’interesse della collettività». Ma nella legge delega si parla sì di nuove norme per azioni disciplinari più veloci, ma della esclusione dal Jobs Act non c’è traccia.

«Le nuove regole sulle tutele crescenti dovrebbero quindi essere applicate ai nuovi assunti», spiega Pietro Ichino, «anche se nella pubblica amministrazione vige il blocco delle assunzioni. Tranne nel caso dei centomila nuovi assunti della scuola. Per loro vige un periodo di prova di tre anni, dopo di che, in teoria, dovrebbero valere le regole del contratto a tutele crescenti». Certo, sono ancora da approvare i decreti delegati della legge delega. E forse qualche novità si potrebbe trovare lì. «Ma sarebbe un eccesso di delega», commenta Ichino. «Se nella legge delega non c’è nulla, come si fa a inserire l’esenzione dal Jobs Act nei decreti delegati?».

Fonte: Linkiesta.it

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