giovedì 30 luglio 2015

Traumi e violenze: «Io psichiatra curo la mente dei profughi»

Intervista a Marzia Marzagalia, uno degli psichiatri che all’Ospedale Niguarda di Milano cura i richiedenti asilo affetti da disturbo post traumatico

Lidia Baratta

(Getty Images/FILIPPO MONTEFORTE)

Marzia Marzagalia è una psichiatra. Da dieci anni, insieme ai colleghi del servizio di etnopsichiatria dell’Ospedale Niguarda di Milano, guarda nella mente degli immigrati. «All’inizio si trattava di pazienti stranieri senza permesso di soggiorno, la maggior parte migranti di tipo economico», racconta. «Ma dal 2011, con l’emergenza Nord Africa, da noi arrivano soprattutto rifugiati, richiedenti asilo e vittime di tortura». Vengono segnalati dai centri di accoglienza milanesi a seguito di gesti improvvisi o comportamenti preoccupanti, o anche dalle commissioni territoriali che devono decidere se concedere lo status di rifugiato a chi lo richiede.

«Si tratta di persone vulnerabili che hanno fatto richiesta di asilo più o meno volontariamente», spiega Marzia Marzagalia. Dopo lunghi viaggi, maltrattamenti e pericolose traversate in mare, alcuni immigrati possono sviluppare quello che in psichiatria si chiama disturbo post traumatico da stress. I traumi che vive una persona che fugge da guerre e persecuzioni e si affida ai trafficanti di esseri umani per raggiungere l’Italia non sono pochi. «C’è chi ha visto morire annegati i compagni di viaggio, chi è scappato dal proprio Paese dopo essere stato torturato in carcere, chi ha visto uccidere davanti ai suoi occhi un fratello o stuprare madri e sorelle, ma c’è anche chi ha imparato bene cosa raccontare per ottenere la protezione». Una volta arrivati in Italia e “smistati” nei centri di accoglienza, «alcuni di loro vivono anzitutto un disagio ambientale, in situazioni comunitarie con persone di etnie diverse che hanno a loro volta storie traumatiche alle spalle. Hanno difficoltà relazionali, non parlano con nessuno».

Il disturbo post traumatico da stress si manifesta con sintomi di diversa intensità. Molti hanno disturbi di tipo fisico. «Dal mal di testa al mal di stomaco, fino all’insonnia», racconta la psichiatra. «Durante il sonno hanno risvegli improvvisi da flashback, con la riattivazione delle scene traumatiche che hanno vissuto». Ma può accadere anche durante il giorno. «Il ricordo di alcune scene violente li attraversa facendo rivivere quelle esperienze con la stessa intensità, provocando una dissociazione e in alcuni veri e propri stati psicotici». A volte basta che qualcuno nel centro in cui trovano pronunci una parola per attivare il flashback e reazioni violente improvvise. E chi ha vissuto torture e persecuzioni «può sviluppare anche un’elaborazione di tipo persecutoria, sentendosi continuamente minacciato e non al sicuro».

Non tutti gli immigrati che sbarcano sulle nostre coste sviluppano questi sintomi. «Dipende dalle basi da cui si parte nel proprio Paese d’origine», spiega Marzagalia. «Se è una migrazione subìta, con una fuga da guerre e violenze, senza un progetto migratorio di miglioramento delle proprie condizioni di vita, non sai cosa trovi dall’altra parte e sei più esposto». Senza dimenticare che «non tutti vogliono restare in Italia, ma a volte sono costretti a fare richiesta d’asilo qui per via della Convenzione di Dublino».

Ma se a Milano è stato messo a punto un protocollo d’azione interdisciplinare tra Comune, Commissione territoriale, ospedale e medici legali, nel resto d’Italia non è così. Una volta sbarcati sulle coste meridionali del nostro Paese, solo i profughi che danno evidenti segnali di disagio vengono ricoverati nei reparti di psichiatria dopo lo sbarco. Per gli altri, li attende l’accoglienza in strutture più o meno adeguate, dove tutto ruota intorno a un materasso dove dormire e a un pasto da ritirare in fila indiana. «C’è una grossa fetta di vulnerabili che non arriva alla nostra attenzione», dice la dottoressa Marzagalia. «Alcuni si allontanano dai centri di accoglienza per non essere identificati, molti sono affidati ad accoglienze di tipo alberghiero che non contemplano altro genere di servizi». Come sempre, dipende dalle regioni. E ovviamente l’attenzione nel trattamento dei richiedenti asilo è a macchia di leopardo. Ognuno fa a modo suo, e i casi virtuosi sono pochi.

«Se trattate adeguatamente, le persone traumatizzate non rimangono traumatizzate a vita», dice Marzia Marzagalia. «Il trauma segna un prima e un dopo, ma non necessariamente il dopo diventa cronico. Noi diciamo loro: “Sappiamo cosa stai provando, ce lo hanno raccontato tanti altri prima di te. Ne uscirai, non è una malattia”». La psichiatra lo spiega con il racconto di un paziente africano in crisi psicotica: «Diceva di essere stato attraversato da un demone: “Una volta passato, se non torna più e se ne va, è qualcosa che non è da me. Se invece rimane, è una malattia”».

Anche il lavoro dello psichiatra e dello psicologo cambia di fronte a questi pazienti. «Dobbiamo diventare più flessibili rispetto alle categorie diagnostiche e culturali che usiamo di solito», racconta Marzagalia. «Non dobbiamo lasciarci immergere nel loro clima culturale, ma neanche sovvrapporre completamente il nostro. Dobbiamo comunicare a un livello più profondo, con una modalità d’ascolto diversa». È per questo che i colloqui all’ospedale Niguarda si fanno sempre alla presenza di due operatori e un mediatore culturale, che aiuta a interpretare le sfumature della gestualità, delle posture sulla sedia, degli sguardi.

«C’è chi viene da noi dicendo di essere stato colpito dal malocchio, chi dice solo di avere mal di stomaco. Ma non ti raccontano subito le loro storie». L’idea di sedersi davanti a un medico e parlare è estranea a molte culture. Spesso si parte da un disturbo fisico. «Prima chiediamo che interpretazione danno a quel disturbo, poi diciamo come noi lo trattiamo e se vogliono provare a farlo con noi, e poi cominciamo a chiedere qualcosa sul loro vissuto, ma non è detto che loro rispondano. È difficile riporre fiducia in qualcuno dopo un periodo in cui sei sfuggito a violenze e persecuzioni e non ti sei fidato di nessuno». Bisogna resettare tutto. Il trucco, dice Marzia Marzagalia, è «porsi in una relazione d’ascolto senza etichettare la sofferenza. Posso dirti che c’è una matassa di dolore in te e se vuoi piano piano possiamo provare a sbrogliarla». E anche sulla prescrizione dei farmaci ci sono delle difficoltà. «Quando penso possa essere utile prescrivere dei farmaci, lo comunico dicendo che se vogliono possono prenderli o no. Il problema è che alcuni sono abituati allo stregone che dà il medicamento e loro sono obbligati a prenderlo. Se dici che possono scegliere se prendere o no una medicina, li mandi in confusione».

Lo psichiatra deve essere flessibile, anche negli appuntamenti. «Se dici che ci rivediamo tra una settimana a quest’ora, molti non si presentano. Vengono solo quando hanno bisogno, senza fissare un appuntamento. E in quei casi tu devi mostrarti disponibile, facendo in modo di ascoltarli comunque. È un lavoro di tessitura di una relazione». Perché, dice la psichiatra, «dobbiamo distinguere tra accoglienza e ospitalità. Non basta offrire un pasto e un letto ai rifugiati che arrivano in Italia. Bisogna che ci siano operatori che sappiano come approcciarsi a loro. Posso dare agli immigrati anche un albergo a cinque stelle con piscina ma non accoglierli, e invece offrir loro solo una branda ma ascoltarli».

Fonte: Linkiesta.it

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