mercoledì 22 luglio 2015

«L’Italia può risolvere il caos libico. Ma continuiamo a fare errori»

Damiano, presidente della Camera di Commercio italo-libica: «Nelle ultime settimane sono tornati diversi connazionali. I rapiti? L’Isis non c’entra»

Davide Vannucci

Miliziani a Bengasi, dicembre 2014 (ABDULLAH DOMA/AFP/Getty Images))

Non sembra cambiato nulla, l'accordo raggiunto dieci giorni fa in Libia tra il governo di Tobruk e alcuni rappresentanti del fronte opposto (ma non dell'altro esecutivo, quello di Tripoli) resta sulla carta. L'ex colonia italiana non riesce a sottrarsi al caos e quattro nostri connazionali, tecnici che lavoravano per la Bonatti, un'azienda di Parma, sono stati rapiti nella zona di Mellitah, sede di un grande impianto dell'Eni. Gian Franco Damiano, presidente della camera di Commercio italo-libica, parla con Linkiesta, inserendo il particolare nel generale e unendo i trattini: da una parte, il caos della Libia, dall'altra, le debolezze della nostra politica estera.

Damiano, che idea si è fatto sul rapimento?

Le ipotesi più probabili, allo stato attuale, sono due. O il sequestro è opera di criminali comuni, per cui lo scopo è semplicemente estorsivo. Oppure si è trattato di una diatriba tra milizie.

Lo Stato Islamico non c'entra? A pochi chilometri da Mellitah, a Sabratha, c'è un campo di addestramento dell'Isis.

Non credo che la responsabilità sia dello Stato Islamico. Quella è un'area in cui operano sia le milizie legate al governo di Tripoli sia quelle vicine a Tobruk. Difficile che l'Isis si esponga in questa maniera. E non penso neppure che dietro il rapimento ci sia il generale Khalifa Haftar. Non si può escludere nulla, è vero, ma ritengo che il generale, vicino all'Egitto di al Sisi, abbia altri modi per influenzare la politica italiana.

Quante aziende del nostro Paese operano adesso in Libia?

Non le posso fornire delle cifre, per motivi di sicurezza. Ma in Libia l'Italia è presente, sia con le imprese sia con i tecnici specializzati. Non ci sono solo le aziende che collaborano con l'Eni. La maggior parte degli italiani lavora nel campo dell'impiantistica e in quello della manutenzione. Centrali elettriche, acquedotti ed altro. Ci sono quelli che lavorano da sempre nel Paese, quelli che non se sono mai andati, ma, da circa un mese e mezzo, un buon gruppo di tecnici è tornato nel Paese.

A febbraio la nostra ambasciata ha chiuso e la Farnesina invita a rientrare in patria.

Infatti il saldo tra entrate e uscite è ancora negativo. Il deterioramento della situazione ha portato gli italiani a lasciare la Libia, ma adesso c'è una certa ripresa in entrata. Siamo tornati, sia in Cirenaica che in Tripolitania. L'unica zona in cui siamo assenti è il Sud.

Quali misure di sicurezza hanno adottato le nostre imprese?

Guardi, la sicurezza in Libia si ottiene attraverso la conoscenza del territorio e l'attivazione di relazioni sul campo. La maggior parte delle aziende non ha contractor privati per la sicurezza. Ci si affida alle milizie libiche, che vengono pagate per controllare i compound. Questo può portare a dei problemi, perché ci possono essere degli screzi. Tempo fa, a Ras Lanuf, c'è stato un problema relativo al pagamento delle milizie, ad esempio.

I quattro rapiti non avevano alcuna forma di protezione.

Sembra di no. Eppure io dubito fortemente che fossero da soli. Difficile che abbiano fatto il percorso dalla Tunisia senza alcun tipo di scorta. Ma ai posti di blocco può succedere di tutto. Chi ha più uomini, comanda. Dipende tutto dalle milizie, quindi può essere che gli italiani siano stati coinvolti in qualcuno dei loro screzi.

Cosa cambia con il recente accordo per un governo di unità nazionale in Libia?

Onestamente non ho grandi speranze riguardo al tentativo di Bernardino Leon, che sostanzialmente cerca di trasferire il governo di Tobruk nel nuovo ordinamento. Il rappresentante dell'ONU ha lavorato per un anno senza cavare un ragno dal buco. Il problema è che, mentre in Cirenaica si può interloquire con le tribù, attraverso i loro capi, in Tripolitania c'è uno sfarinamento totale. Non esiste un controllore politico. Sei mesi fa a Tripoli c'è stato un cambio di governo, senza alcun esito.

Non sarebbe più semplice mettere d'accordo i padrini dei due fronti, Egitto ed Emirati, da una parte, Qatar e Turchia dall'altra?

La Turchia ha altri problemi, non credo che si voglia esporre. C'è un solo Paese che può prendere in mano la questione, tenendo conto del fatto che gli Stati Uniti si sono sfilati. Questo Paese è l'Italia. Noi possiamo dialogare con tutti, con Tripoli, con Bengasi, con Tobruk. Purtroppo abbiamo fatto una scelta sbagliata, quella di accodarci all'Egitto. La nostra politica estera è stata deficitaria. Si ricorda quello che successe a febbraio, dopo la decapitazione dei copti a Sirte?

Intende le dichiarazioni "bellicose" di alcuni ministri?

Sì, il ministro degli Esteri Gentiloni e quello della Difesa, Pinotti, parlarono di 5.000 uomini già pronti. Bene, il giorno dopo la nostra ambasciata è stata costretta a chiudere. Renzi è riuscito a recuperare la situazione solo alcuni giorni dopo.

Cosa dovremmo fare, quindi?

Dovremmo smettere di seguire le direttive di al Sisi, un dittatore che ha interessi definiti in Cirenaica. Haftar è un suo uomo, è un militare, che ragiona come lui. Dovremmo lavorare a un'intesa che coinvolga tutti. E invece in Libia paghiamo le conseguenze di una politica estera sbagliata. Chissà, forse se l'ambasciata fosse stata aperta, il rapimento non ci sarebbe stato. Non lo so, ma probabilmente alcune antenne si sarebbero drizzate.

Fonte: Linkiesta.it

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