sabato 11 luglio 2015

Il massacro di Srebrenica, 20 anni fa

È stata la strage più grave in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale, fu compiuta dalle milizie serbo-bosniache praticamente davanti ai soldati dell'ONU

Soldati svedesi dell'ONU alla base ONU di Tuzla, il 14 luglio 1995. (AP Photo/Darko Bandic)

La mattina del 12 luglio 1995 il generale serbo bosniaco Ratko Mladic fu ripreso dal giornalista serbo Zoran Petrović mentre rassicurava la popolazione di Srebrenica, una città musulmana in una regione a maggioranza serba della Bosnia. Mladic, circondato dai suoi miliziani, spiegava che a nessun abitante di Srebrenica sarebbe stato fatto del male. Nel video era inclusa anche una breve intervista a Mladic in cui lui spiegava come i suoi uomini avessero portato in città cibo, acqua e medicine per la popolazione locale. Alla fine del video si vedeva Mladic parlare con un bambino musulmano di 12 anni: gli chiedeva di essere paziente e gli diceva che chi avesse voluto rimanere a Srebrenica avrebbe potuto farlo. In quel momento i suoi uomini avevano cominciato a radunare e uccidere tutti i maschi in età militare della città già da 24 ore, cioè dal pomeriggio dell’11 luglio. Nel giro di 72 ore più di ottomila bosniaci musulmani sarebbero stati uccisi nel peggior massacro avvenuto in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale.



All’epoca della strage si combatteva intorno a Srebrenica da oramai da tre anni. Gli scontri erano cominciati nel 1992 quando la Bosnia aveva dichiarato sua indipendenza dalla Yugoslavia in seguito a un referendum. La Bosnia era la più variegata tra le varie repubbliche federali che formavano l’ex Yugoslavia: la maggioranza dei suoi abitanti è di religione musulmana, ma c’è anche una grossa minoranza di serbi ortodossi e una più piccola di croati cattolici. I serbi-bosniaci avevano boicottato il referendum e quando era stata proclamata l’indipendenza avevano cominciato una guerra contro il governo bosniaco, appoggiati dal governo serbo di Slobodan Milosevic, per ottenere l’annessione alla Serbia della loro regione. Era stata fino a quel momento una guerra particolarmente brutale e sanguinosa. Nei territori a maggioranza serba c’erano molte enclavi musulmane contro cui i miliziani serbo-bosniaci e i regolari serbi si accanivano praticando quella che da allora è diventata famosa come la “pulizia etnica”, un termine che fu coniato dagli stessi leader serbi. I paesi musulmani venivano sistematicamente distrutti e i loro abitanti espulsi. Lo scopo era creare un territorio omogeneo, dove abitassero soltanto serbi e che sarebbe stato facile da annettere alla Serbia una volta arrivati al tavolo delle trattative.

Srebrenica e i paesi nella valle della Dvina erano uno dei principali ostacoli a questo progetto e i serbi avevano cominciato a concentrare nella regione gli sforzi delle loro milizie. La città era passata di mano diverse volte, ma alla fine era stata occupata dal piccolo e malridotto esercito bosniaco e da alcune milizie musulmane locali. I serbi avevano assediato la città, cercando di costringere gli abitanti alla resa per fame mentre nel frattempo conquistavano ed espellevano la popolazione dai paesi circostanti. Nel corso del 1993 la situazione di Srebrenica era diventata disperata: decine di migliaia di rifugiati vivevano in città dove non c’era quasi più acqua e cibo. Ad aprile l’ONU aveva proclamato Srebrenica una “safe zone” in cui entrambe le parti avrebbero dovuto interrompere attività militari e aveva inviato sul posto un contingente militare olandese. Nei mesi successivi entrambe le parti avrebbero violato gli accordi.

Il massacro
Nel pomeriggio dell’11 luglio, dopo giorni di combattimenti, le truppe serbo-bosniache al comando di Mladic entrarono in città. I caschi blu olandesi spararono qualche colpo in aria, ma non opposero particolare resistenza. Un accordo per l’occupazione di Srebrenica venne rapidamente raggiunto e il comandante degli olandesi lo firmò mentre brindava con Mladic. Poco dopo Mladic si fece riprendere mentre rivolgeva un discorso ai suoi concittadini serbi: «In questo 11 luglio 1995 siamo nella città serba di Srebrenica, facciamo dono di questa città al popolo serbo».



La mattina dopo circa 25 mila musulmani si erano radunati intorno al complesso occupato dai caschi blu olandesi. Fu in quelle ore che Mladic venne ripreso mentre camminava tra i profughi, rassicurandoli. Donne, anziani e bambini furono imbarcati su autobus e camion e cominciarono a essere trasferiti in un’altra base ONU ad alcune decine di chilometri di distanza. Ogni volta che un uomo o un ragazzo, fino a 14-15 anni di età, cercava di salire su uno dei camion veniva bloccato e portato in un complesso poco distante, chiamato la “Casa bianca”. Il motivo ufficiale era per verificare che non facesse parte delle milizie locali, ma la vera ragione era che dietro l’edificio, fuori dalla vista dei militari dell’ONU e degli altri profughi, i serbi avevano cominciato il massacro.

Per tutto il 12 luglio i militari olandesi e i rifugiati radunati intorno alla loro base assistettero a sporadici episodi di violenza. Alcuni uomini furono portati via e uccisi, alcune donne violentate. Secondo un testimone, un miliziano serbo accoltellò un ragazzino di dieci anni. Sembravano uccisioni casuali, ma nascondevano il fatto che a breve distanza i miliziani serbi stavano portando avanti quello che i tribunali internazionali hanno definito un massacro «pianificato e coordinato ad alto livello». Mentre donne e bambini venivano trasferiti da Srebrenica, i militari serbi catturarono circa seimila uomini e ragazzi che avevano cercato di lasciare la città fuggendo sulle montagne e disperdendosi nei campi lì intorno. Altri mille uomini furono separati dal gruppo di donne, anziani e bambini che si trovava intorno al complesso dell’ONU. Altri 300, che avevano trovato rifugio all’interno della base, furono consegnati dagli stessi caschi blu (un fatto per cui i Paesi Bassi sono stati condannati da un tribunale internazionale).

Nelle 48 ore successive le esecuzioni procedettero in maniera precisa e uniforme. I gruppi di uomini appena catturati venivano prima portati all’interno di scuole oppure magazzini abbandonati. Qui gli venivano legate le mani dietro la schiena, venivano spesso bendati e gli venivano tolte le scarpe per essere certi che non riuscissero a fuggire. Dopo alcune ore di attesa i prigionieri venivano imbarcati su camion e autobus, spesso gli stessi utilizzati poche ore prima per portare via le loro famiglie dalla città. A quel punto venivano trasportati lontani dalle zone abitate, fatti scendere, messi in fila e uccisi con un colpo alla testa. I loro corpi venivano poi spinti con alcuni bulldozer dentro fosse comuni e sepolti. Da allora sono state scoperte decine di queste fosse comuni e i resti umani di più di 6.500 persone sono state identificati grazie agli esami del DNA. In tutto si stima che più di 8.100 persone siano state uccise a Srebrenica.

I processi
Pochi mesi dopo Srebrenica, quando l’entità del massacro non era ancora chiara, la NATO iniziò una massiccia campagna aerea contro le milizie serbe in Bosnia e contemporaneamente l’esercito croato lanciò una nuova offensiva contro l’esercito serbo. In breve i serbi furono costretti a trattare e la guerra terminò con gli accordi di Dayton firmati nel dicembre dello stesso anno. Mladic e l’allora presidente della repubblica serba di Bosnia, Radovan Karadžić, fuggirono e vennero arrestati soltanto molti anni dopo il massacro. Oggi sono ancora sotto processo con l’accusa di genocidio presso il tribunale dell’Aia istituito dalle Nazioni Unite per indagare sui crimini compiuto nel corso della guerra. Altri due ufficiali dell’esercito serbo-bosniaco sono stati condannati per la strage e uno dei due è stato condannato con l’accusa di genocidio. Nel 2004 la Serbia ammise la sua responsabilità nel massacro, ma da allora il caso è rimasto controverso in particolare per l’utilizzo del termine genocidio. Questa settimana, su richiesta dei serbi bosniaci, la Russia ha messo il veto su una risoluzione dell’ONU che ricordava il massacro utilizzando la parola “genocidio”.

Fonte: Il Post

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