sabato 27 giugno 2015

Quel filo nero che unisce le stragi in Tunisia, Francia, Kuwait

Tre stragi diversi, in contesti diversi, nel medesimo giorno. Coordinate o meno, dimostrano la capacità dell’Isis di fare proseliti e colpire ovunque

Davide Vannucci

BECHIR TAIEB/AFP/Getty Images

Qualche tempo fa un'interessante tabella, elaborata dal sito Middle East Eye, mise a confronto i sistemi penali dell'Isis e dell'Arabia Saudita. Le somiglianze erano notevoli, proprio perché, nella sostanza, i due fronti condividevano e condividono la medesima ideologia. In quell'infografica c'è tutta l’ambiguità di regimi che combattono un nemico con il quale hanno in comune un sistema di valori, e che, peraltro, è sostenuto economicamente da individui facoltosi di quegli stessi Paesi.

Le monarchie del Golfo Persico – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar - partecipano alla coalizione internazionale contro lo Stato Islamico, in Siria e in Iraq. E l’obiettivo del Califfo - o chi per lui - è quello di fare tabula rasa dello status quo in Medio Oriente, abbattere i governi della regione, sterminare gli sciiti e riunire tutti i sunniti sotto la sua guida. Ma in Siria, grande incubatrice del jihad di questi anni, questi regimi hanno giocato un ruolo di primo piano, finanziando il tentativo di rovesciare Assad. E adesso, dopo che il Califfo è diventato il nemico numero uno della comunità internazionale, si ritrovano il giardino di casa trasformato in un potenziale campo di battaglia. L’attentato di giovedì 26 giugno nella moschea sciita dell’imam al-Sadiq, a Kuwait City, contemporaneo all’azione compiuta in un impianto di gas vicino a Lione e all’assalto jihadista su una spiaggia di Sousse, in Tunisia, non solo ha mostrato la capacità di azione del jihad, in grado di colpire in luoghi così diversi, ma ha segnato la comparsa del terrore nel cuore di una capitale del Golfo.

Non è ancora chiaro se vi sia stato un qualche livello di coordinamento, o se, più probabilmente, si sia trattato di gruppi ed individui isolati, ispirati dalla propaganda del Califfato. Certamente l’attacco kamikaze nel centro di Kuwait City – almeno venticinque morti, più di duecento feriti – durante la preghiera del venerdì è stato l’attentato più grande degli ultimi anni nelle monarchie del Golfo. Tra le vittime, un ragazzo di sedici anni, Mohammed Ahmed al-Jaafar e un professore di scienze sociali, Jasem al-Khawaja. L’Isis ha rivendicato l’azione, attribuendola a un certo Abu Suleiman al-Muwahhad.

In Kuwait una quota piuttosto significativa della popolazione (tra il venti e il tenta per cento) è sciita e le tensioni settarie sono cresciute negli ultimi mesi. I foreign fighters kuwaitiani del Califfato sono meno di un centinaio, ma in tempi recenti la polizia ha compiuto alcuni arresti e ha sequestrato vario materiale esplosivo. Più in generale, negli ultimi mesi l’Isis ha alzato il livello della sfida contro i Paesi del Golfo, prendendo di mira la comunità sciita. Lo scorso 22 maggio maggio a Qatif, nella parte orientale dell’Arabia Saudita, un attentato ha ucciso 21 persone e ne ha ferite 120. Una settimana dopo un’autobomba ha colpito l’ingresso della moschea sciita di al-Anoud, a Damman: quattro morti. Gli analisti hanno parlato di azioni isolate, frutto di lupi solitari, incoraggiati da al Baghdadi e dalle sue invettive contro la casa reale dei Saud, ma non si può escludere un certo grado di coordinamento. Il Califfato, comunque, ha rivendicato gli attentati, il cui obiettivo è quello di fomentare ulteriormente le tensioni tra sunniti – la grande maggioranza – e sciiti – quindici per cento della popolazione – ed insediarsi sempre di più in Arabia. Si stima che 2.500 sauditi siano partiti per combattere in Siria e in Iraq assieme all'Isis, tant’è che il regno ha dovuto introdurre norme specifiche contro i foreign fighters.

D’altra parte, come detto, i Paesi del Golfo sono sempre stati accusati di essere responsabili dell’espansione del Califfato, a causa del sostegno, economico e militare, alle fazioni islamiste che combattono Assad. Inoltre l'Isis, ha goduto – e, secondo alcuni, come i curdi iracheni, continua a godere – di fondi consistenti da parte di uomini del Golfo – Qatar, soprattutto, ma anche Kuwait e Arabia Saudita – mentre le autorità che chiudono un occhio. È proprio il Kuwait, Paese in cui riciclare denaro non è un’impresa, ad essere il centro di questi canali di finanziamento. «Tutti sanno che il denaro per i gruppi estremisti in Siria ed Iraq viene dai Paesi del Golfo, attraverso il sistema bancario del Kuwait», sostiene Andrew Tabler, del Washington Institute for Near East.

L'assalto di Sousse, invece, ricorda per molti aspetti quello compiuto al Museo del Bardo di Tunisi lo scorso marzo. Non è difficile capire perché il Califfato abbia preso di mira il “Paese dei gelsomini” e perché il bersaglio sia stato proprio un resort turistico. La Tunisia è l’unico esempio di primavera araba relativamente compiuta, l’unico caso in cui, caduto il regime, laici ed islamisti – malgrado alcune ambiguità che hanno segnato la prima fase governativa di Ennahda, i Fratelli Musulmani locali – sono riusciti a trovare un’intesa. Quella tunisina non è success story completa, perché l’economia ancora traballa e i problemi di sicurezza restano. Colpire il turismo, una delle maggiori fonti di reddito e di valuta straniera, terrorizzando ignari bagnanti con una vera e propria azione di guerra, rappresenta un paradigma perfetto per il jihad.

D’altronde, in Tunisia, dopo la fine della dittatura di Ben Ali, la propaganda salafita ha avuto più spazio e sempre più persone si sono avvicinate al fondamentalismo (i tunisini, secondo la maggior parte delle stime, sono il gruppo più numeroso tra i foreign fighters del Califfo). La guerra civile libica offre loro un campo d’azione a portata di confine (piuttosto poroso, peraltro). Nella catena di comando dello Stato Islamico in Libia ci sono molti tunisini, ma anche in patria i miliziani del Califfato si sono segnalati per alcune azioni eclatanti. Lo scorso 16 giugno, ad esempio, l’Isis ha rivendicato un attacco agli uffici della guardia nazionale di Sidi Bouzid, la città dell'entroterra simbolo della primavera araba, perché fu proprio lì che l’auto-immolazione del giovane Mohammed Bouazizi innescò la miccia della rivolta contro Ben Ali. E Sousse, d'altra parte, è considerato uno dei bacini più importanti per il jihad. Alcuni dati parlano di un migliaio di militanti partiti dalla città per unirsi alla causa del Califfato. Quartieri come Al Qalaa Al Kubra ("Il Grande Castello"), Al Riyadh, Al Shabab e Hamam Soussa sono centri nevralgici del reclutamento, assieme a zone periferiche come Herkalion e Sidi Abdelhamid. Già in passato non erano mancati episodi di violenza: nel 2012 la stazione di polizia di Sud Sousse venne assalita da due salafiti, che furono uccisi. Nel 2013 fu il turno di un attacco kamikaze. L’azione di ieri, però, denota un salto di qualità notevole - il bilancio, ancora provvisorio, è di 37 morti - con un impatto economico importante, considerato che ogni anno la città riceve un milione di turisti.

Secondo un’inchiesta della rete qatariota al Jazeera, sebbene non manchino jihadisti di buona famiglia, i foreign fighters di Sousse, che hanno in gran parte un’età compresa tra i 20 e i 30 anni, vengono soprattuto dai distretti della working class, dove alla povertà e alla marginalità sociale si unisce la mancanza di istituzioni religiose. Il giovane militante, quindi, può essere attratto dal denaro, o comunque risultare più sensibile alla propaganda dei predicatori che inondando la rete e le televisioni via cavo.

Kuwait, Tunisia, Francia. Una capitale del Golfo, un Paese arabo che guarda all'Occidente, uno Stato europeo alle prese con un nemico interno difficile da individuare, controllare e disinnescare. Tre luoghi culturalmente diversi, ma legati da un solo filo conduttore, in un giorno simbolico, un venerdì del mese sacro di Ramadan, a quasi un anno di distanza da quel 29 giugno in cui Abu Bakr al Baghdadi proclamò la nascita del Califfato.

Fonte: Linkiesta.it

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