martedì 30 giugno 2015

Draghi non basta, ad Atene fallisce la politica europea

Un accordo ragionevole era possibile. Ma la governance dell’Eurozona non funziona, troppe parti al tavolo. L’unica che ha fatto politica è la Bce

Fausto Panunzi (da Lavoce.info)

Tratto da "Lavoce.info"

La manifestazione del 29 giugno ad Atene per il “no” al referendum sull’accordo tra Grecia e Bce-Commissione Ue-Fmi (Milos Bicanski/Getty Images)

Un accordo reciprocamente vantaggioso tra la Grecia e i suoi creditori sembrava possibile. Invece, si è arrivati alla rottura. Per molte ragioni, ma certo è che la governance dell’Eurozona non funziona. L’unica istituzione europea che in questo periodo ha fatto politica è stata la Bce.

Perché l’accordo era quasi certo

La scorsa settimana si era aperta all’insegna dell’ottimismo. La soluzione all’ormai estenuante trattativa tra il governo greco e le sue controparti europee sembrava essere a un passo. Poi c’è stato il moltiplicarsi dei vertici a Bruxelles fino all’annuncio del referendum chiesto da Alexis Tispras. Adesso è partito, come c’era da aspettarsi, il gioco a identificare il colpevole. Ma forse è più utile fare un passo indietro e capire la posta in gioco e quali fattori possono avere contribuito a questa impasse.

Considerate un’impresa che abbia un livello del debito molto elevato, tale da non poter essere interamente ripagato. L’impresa ha anche un nuovo progetto d’investimento che, se finanziato, genera utili. In questa situazione, potrebbe accadere che gli azionisti si rifiutino di finanziare il nuovo progetto perché gli utili da esso generati andrebbero a beneficio soprattutto dei creditori.

Come si può evitare l’inefficienza che tale fenomeno (detto debt overhang) crea? La risposta che si trova nei manuali è che occorre una rinegoziazione tra creditori e debitori che preveda da un lato la cancellazione (parziale) del debito in cambio del finanziamento del nuovo progetto. Chi guadagna di più dalla rinegoziazione? Dipende dal potere negoziale delle due parti. Ma il vero punto è che la rinegoziazione può essere nell’interesse sia del debitore (che vede il suo debito alleggerito) sia dei creditori (che si possono appropriare di una parte degli utili del nuovo progetto).

Adesso proviamo a pensare alla Grecia al posto dell’impresa e ai paesi e alle istituzioni europee nel ruolo dei creditori. Atene ha debiti che palesemente non può ripagare. Inoltre la sua economia è in recessione da anni, anche a causa di politiche di austerità prolungata. Far tornare a crescere il paese è nell’interesse sia dei cittadini greci che dei creditori. A tal fine, sono necessarie delle riforme (l’equivalente del nuovo progetto). La Grecia soffre di una forte evasione fiscale, ha una regolamentazione che sfavorisce la concorrenza nei mercati dei prodotti, una spesa pensionistica del 17 per cento del Pil (contro poco più del 12 della Germania), oltre a vari altri problemi.

Naturalmente, non è pensabile di combattere l’evasione fiscale in modo serio in pochi mesi. In Italia lo sappiamo fin troppo bene. Quindi il programma di riforme ha bisogno di un adeguato orizzonte temporale. Oltre alle riforme, occorre che la morsa dell’austerità sia allentata. Avanzi primari superiori all’1 per cento sono indesiderabili in questa fase. Programmi di aiuto alle fasce più deboli della popolazione sono invece indispensabili. Su queste basi, un accordo reciprocamente vantaggioso non sembra impossibile da raggiungere, specie tenendo conto che il Pil della Grecia è meno del 2 per cento di quello dell’Eurozona. Infatti, a un certo punto sembrava che l’accordo fosse dietro l’angolo. Eppure non è andata così, come la chiusura delle banche greche ci ricorda in modo fin troppo chiaro.

Che cosa è andato storto

Cosa è andato storto? In primo luogo, alcune delle istituzioni coinvolte non possono accettare una esplicita cancellazione, anche solo parziale, dei loro crediti. Questo rende anche le altre parti coinvolte meno propense a fare concessioni. In secondo luogo, la rinegoziazione è più difficile quando ci sono molte parti sedute al tavolo, specie se hanno obiettivi diversi. Chi parla per l’Europa? Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk? Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker? La cancelliera Angela Merkel? Chi di loro ha l’ultima parola? Dover convocare un Consiglio europeo ogni volta che un accordo sembra in vista non è il modo più efficace per convergere verso una soluzione.

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Fonte: Linkiesta.it

lunedì 29 giugno 2015

Davvero l’UE ha imposto all’Italia la produzione di formaggio “senza latte”?

Ovviamente no, nonostante certi titoli, ma ha chiesto all'Italia di cambiare una vecchia legge sulla produzione di formaggi

(Andrea D'Errico/LaPresse)

Da due giorni circola molto una notizia secondo cui la Commissione Europea abbia emesso un “diktat” – non si capisce molto di più, concretamente – al governo italiano per costringerlo alla produzione del formaggio “senza latte” o con latte in polvere. La Stampa, per esempio, ha titolato: “L’Ue ci impone il formaggio senza latte”. La parola “diktat” è stata usata in un tweet anche dal ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, che il 28 giugno ha scritto: «su formaggi e latte in polvere no a diktat EU».

In realtà la questione è molto più complicata e riguarda una legge italiana del 1974 che vieta l’utilizzo di latte in polvere per la produzione di formaggi: secondo una lettera inviata al governo italiano dalla Commissione Europea e citata dal Corriere della Sera, la legge in questione violerebbe la «libera circolazione delle merci» all’interno dell’Unione Europea, e di conseguenza deve essere modificata. Esistono dei meccanismi che non rendono automatica la decisione della Commissione, e in generale ci vorranno diversi mesi (o anni) affinché si arrivi a una decisione definitiva. Come già anticipato dallo stesso Martina, poi, un’eventuale modifica della legge non interesserebbe i formaggi a Denominazione di Origine Protetta (DOP), i più pregiati e caratteristici del mercato italiano.

E comunque, anche se la procedura d’infrazione della Commissione Europea andasse a buon fine, il governo italiano sarebbe costretto a rendere legale anche la possibilità di produrre formaggio con latte in polvere: ma non per questo gli sarà “imposto” di produrre formaggio senza latte (il latte in polvere conta comunque come latte).

Da capo
La legge 138 del 1974, al comma c dell’articolo 1, prescrive che è vietata la detenzione, la produzione e la vendita di «prodotti caseari preparati con i prodotti di cui alle lettere a) e b) [cioè latte fresco a cui è stato aggiunto latte in polvere] o derivati comunque da latte in polvere». Secondo il Corriere della Sera la legge 138 è stata “denunciata” circa due anni fa alla Commissione Europea, che nel novembre del 2013 ha chiesto informazioni all’Italia sulla questione. Di recente, secondo quanto scritto dal Corriere della Sera e dalla Stampa, la Commissione Europa ha invece inviato una “lettera di messa in mora”: cioè il meccanismo “iniziale” con cui la Commissione contesta a un dato stato la violazione di alcune norme europee, e al contempo dà due mesi di tempo per rispondere alle contestazioni.

Secondo il Corriere della Sera, il governo italiano si incontrerà il 24 luglio con alcuni rappresentanti della Commissione per discutere del problema. Nel caso uno stato decida di non adeguarsi alle direttive della Commissione una volta esauriti i due mesi, la questione viene risolta dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee: le infrazioni, cioè le multe in denaro, vengono attivate solo nel momento in cui un paese non rispetta una sentenza della Corte di Giustizia sulla vicenda (al momento l’Italia ha 98 procedure d’infrazione pendenti con la Commissione Europea, circa la metà delle quali ancora allo stadio della “messa in mora”).

Per quanto riguarda il contenuto della lettera di messa in mora – che il ministero delle Politiche Agricole ha definito “una diffida” – lo stesso ministro Martina in un comunicato stampa ha spostato la questione dal problema del latte in polvere a quello delle etichette e della «trasparenza delle informazioni da dare ai consumatori». Martina ha inoltre ricordato che la produzione dei formaggi DOP è già protetta da una normativa della Commissione Europea che proibisce l’utilizzo di «materie prime diverse da quelle previste dai disciplinari» (cioè di latte in polvere).

Fonte: Il Post

L’omosessualità non è più illegale in Mozambico


Da oggi non è più illegale essere gay in Mozambico. Questa mattina è entrato in vigore il nuovo codice penale, modificato in dicembre, che proibisce la persecuzione giudiziaria contro gli omosessuali in tutto il paese, dove comunque l’intolleranza è meno marcata che in altri stati dell’Africa meridionale.

Il vecchio codice penale, adottato nel 1886 quando il Mozambico era ancora una colonia portoghese, prevedeva “misure di sicurezza” contro chi “è solito dedicarsi ad atti contro natura”. Una disposizione che avrebbe potuto essere utilizzata per perseguitare gli omosessuali, con condanne ai lavori forzati fino a tre anni, ma non è mai stata applicata dopo l’indipendenza del paese nel 1975. Rilasciato lo scorso dicembre dal presidente uscente, Armando Guebuza, il nuovo codice depenalizza anche l’aborto, a seguito della mobilitazione dello scorso anno di molte organizzazioni che si battono per i diritti delle donne.

“È una vittoria simbolica. Ma per noi non cambierà molto”, ha detto all’agenzia francese Afp uno studente di comunicazione di 22 anni, socio dell’associazione Lambda difesa dei diritti Lgbt, che ancora non è riconosciuta dallo stato. “L’inclusione sociale rimane la sfida principale”, ha aggiunto, rifiutando di dare il suo nome.

“Non possiamo veramente parlare di volontà politica, il governo reagisce piuttosto alla pressione esterna di alcune ambasciate e investitori”, ha detto Dercio Tsandzana, un blogger e influente attivista.

L’entrata in vigore del nuovo codice penale è avvenuta in una certa indifferenza generale. Non è stato programmato nessun evento particolare per celebrare quello che in altri paesi della dell’Africa meridionale sarebbe apparso come un importante passo avanti per i diritti Lgbt. Gli atti omofobi sono molto rari in Mozambico, che invece è circondato da paesi in cui la situazione è completamente opposta. Basti pensare a Robert Mugabe, il presidente del vicino Zimbabwe, noto per la sua crociata anti-gay. E comunque, l’omosessualità rimane illegale nella maggior parte dei 54 paesi africani.

Fonte: Internazionale

Referendum Grecia: cosa succede se vince il sì, cosa succede se vince il no

Il Messaggero analizza cosa potrebbe accadere dopo il referendum


Al di là delle rassicurazioni, il timore è l’effetto contagio per la crisi in Grecia. Il rifiuto di Tsipras di accettare le proposte dei creditori internazionali e la decisione del Parlamento di convocare una consultazione popolare il 5 luglio per chiedere ai cittadini greci se accettare o rifiutare le condizioni poste per l’accordo sul debito, lasciano non poche incognite. In Italia già il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha smentito pericoli per il nostro Paese: «Rischi? Nessuno. La Bce è preparata». Ma è chiaro che, dato che non esistono precedenti, gli effetti del possibile Grexit impensieriscano tutta l’Eurozona.


CRISI GRECIA, GLI SCENARI - Dopo l’annuncio della chiusura delle banche greche, le Borse di tutto il mondo – compresa Piazza Affari – sono state oggi trascinate verso il basso, dopo i primi segnali sui mercati asiatici. Sul Messaggero si provano ad analizzare gli scenari possibili: intervistato dal quotidiano romano è Ugo Loser, numero uno di Arca (società di gestione del risparmio che amministra quasi 30 miliardi di euro, ndr) a spiegare:

«Se uno volesse essere razionale, gli scenari non sono così problematici. Il Pil della Grecia è marginale, il debito sono ormai cinque anni che è sotto controllo, è arrivato il Quantitative easing, c’è stata una sentenza della Corte Costituzionale tedesca che ha riconosciuto la legittimità dell’Omt, il bazooka di Draghi, ci sono stati i rafforzamenti delle banche. Sembrerebbe», sostiene, «che oggi la Grecia dentro o fuori i mercati non faccia alcuna differenza». Insomma, gli operatori starebbero guardando al tira e molla tra Atene da un lato, e Bruxelles e Francoforte dall’altro, più come a una telenovela che come ad una questione che possa creare effettivi sconquassi. Eppure c’è un “ma”. «Il caso Lehman ha insegnato che fin quando una cosa non succede realmente noi non sappiamo quali possono essere le vere conseguenze. Per esempio, quali sono i contratti derivati di cds (credit default swap, ndr) che sottostanno alla Grecia, e quali sono gli effetti a catena che si possono scatenare se, supponiamo, un grosso hedge fund di Hong Kong si è scommesso, per modo di dire, la casa su Atene. Tutto questo può rendere molto nervosi i mercati»

IL RUOLO DI DRAGHI E DELLA BCE - Da più parti si confida nella capacità del presidente della Bce Mario Draghi di arginare sul nascere qualsiasi tipo di contagio:

«Ha fatto intendere che può anticipare il Quantitative easing, invece di acquistare 60 miliardi al mese di titoli pubblici può mettere subito sul piatto 300 miliardi, che sono un multiplo del debito greco». Senza considerare la possibilità di attivare, parafrasando il dottor Stranamore, quell’arma-da-fine-mondo che è l’acquisto illimitato di titoli pubblici attraverso l’Omt, il bazooka del «whatever it takes» promesso da Draghi per salvare l’euro ma mai fino ad oggi usato. «È chiaro», secondo Loser, «che la priorità della Bce non è la Grecia,ma sono i mercati. Se la reazione sarà ferma e decisa, i rischi per la stabilità europea saranno inferiori»

GRECIA, IL REFERENDUM E GLI SCENARI - In attesa del referendum del 5 luglio, nella prima giornata con le banche chiuse in Grecia è prevista in serata la manifestazione di Syriza contro l’austerità e per il “no” davanti al Parlamento. Domani, invece, sarà l’ex premier Antonis Samaras e l’opposizione a sfilare per il “sì”, dopo aver già chiesto al premier di fare un governo di unità nazionale. Domani riapriranno anche i bancomat, ma il prelievo massimo sarà di 60 euro al giorno.

In caso di vittoria dei no, per il Messaggero l’addio all’euro «sarebbe un regalo alle classi sociali greche più agiate i cui patrimoni sono già in parte all’estero. Tornare alla dracma significa una enorme svalutazione. E dunque i greci (o altri) in grado di disporre di euro, in futuro potrebbero comprare imprese o immobili ateniesi a prezzi (in dracma) stracciati, impoverendo ancora i cittadini grecimeno fortunati». Una vittoria del “si”, secondo il quotidiano romano comporterebbe un nuovo patto tra Grecia e creditori, elezioni anticipate e la nascita di un nuovo governo.

Anche per il quotidiano romano, l’Italia non rischia il contagio:

Lo spread (maggiori interessi pagati dai titoli pubblici italiani rispetto a quelli tedeschi) è sceso da 600 punti di inizio 2011 a circa 130. Probabilmente risalirà ma non si intravedono sconvolgimenti. Le banche e le imprese italiane sono poco esposte con Atene. Lo Stato italiano invece, tramite i fondi europei di sostegno, ha prestato circa 37miliardi alla Grecia (la Germania 60).

Tradotto, niente panico. Anche perché, si precisa:

«Il debito pubblico greco ammonta a 315 miliardi: appena il 5% di quello complessivo di Italia, Francia e Germania. Il fallimento di Atene non creerebbe voragini incolmabili. Le Borse Ue vengono poi da una fase prudente: probabilmente registreranno oscillazioni (specie i titoli bancari) ma senza avvitamenti. La Bce ha fatto sapere di poter controllare lo scacchiere e gli Usa intendono difendere la loro ripresa»

Fonte: Giornalettismo

La chiusura delle banche in Grecia

Le banche greche resteranno chiuse sino al 5 luglio e le borse europee e asiatiche sono crollate, per la paura di un eventuale default della Grecia

Un ciclista di fronte a un nuovo graffito anti-euro ad Atene. Credit: Alkis Konstantinidis

Per evitare la fuga incontrollata dei capitali, il 29 giugno il governo di Atene ha deciso di tenere chiuse le banche greche e ha imposto un prelievo massimo dai bancomat di 60 euro al giorno.

Le banche riapriranno dopo il referendum del 5 luglio, indetto dal primo ministro greco Alexis Tsipras lo scorso 27 giugno, con cui i cittadini potranno decidere se accettare o meno la proposta formulata dai creditori internazionali riguardo il pagamento del debito. Tsipras ha detto che le riforme imposte alla Grecia sono "un ricatto per farci accettare severe e umilianti misure di austerità senza fine, e senza la prospettiva di poter crescere socialmente ed economicamente".

La chiusura delle banche è stata imposta dal governo in seguito alla decisione della Banca centrale europea di non concedere ulteriori fondi e di non estendere il piano di aiuti per la Grecia, che scade il 30 giugno. Entro questa data la Grecia dovrebbe ripagare ai Paesi creditori un debito pari a 1.6 miliardi di euro. Se non riuscirà a pagare, sarà il primo Paese dell'eurozona a dichiarare fallimento.

Lo spettro del default e dell'uscita dall'euro ha seminato il panico tra i cittadini greci, che nelle scorse settimane sono corsi a ritirare i propri risparmi dalle banche. Tsipras ha però invitato i suoi concittadini a restare calmi, promettendo che stipendi e pensioni saranno regolarmente pagati.

In seguito al fallimento delle trattative tra l'Eurogruppo e il governo di Atene, il 29 giugno il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha detto di essere fortemente deluso e di sentirsi "tradito" dall'egoismo dimostrato dalla Grecia durante le ultime trattative. Ha definito il referendum una scelta "unilaterale" e ha chiesto ai greci di votare sì alle proposte dell'Eurogruppo.

"Ho fatto tutto quello che potevo e non merito le critiche che mi sono state rivolte", ha detto Juncker durante la conferenza stampa a Bruxelles, accusando il premier greco di non aver detto la verità ai cittadini e di aver mentito su eventuali tagli a stipendi e pensioni imposti dall'Eurogruppo.

Juncker ha inoltre ribadito che la cosiddetta Grexit - l'uscita della Grecia dall'eurozona - non è un'opzione da tenere in considerazione e ha sottolineato che il tavolo delle trattative resta ancora aperto.

Il 29 giugno i mercati europei e asiatici sono crollati, per la paura di un eventuale default della Grecia. La borsa di Milano ha registrato un calo del 2,03 per cento, quella di Parigi del 4,7 per cento e quella di Shangai del 3,79 per cento.

Fonte: The Post Internazionale

domenica 28 giugno 2015

Calvi Risorta in piazza contro la centrale


Di Ivan Trocchia

Qualche giorno fa la scoperta del " più grande sito di smaltimento clandestino di rifiuti tossici" a Calvi Risorta, in provincia di Caserta, e oggi corteo contro il biocidio. Qui a Calvi. Già Cales. Uno dei luoghi prediletti di Annibale. In realtà la manifestazione ha obiettivi assolutamente concretissimi. Come l'impedimento dell'apertura del sito della Centrale a bio masse. Questo territorio ha di tutto bisogno meno che di una centrale di smaltimento rifiuti. E gli ultimi ritrovamenti stanno lì a dimostrarlo. Lo stress che la terra ha già subito è notevole.

E in effetti a venire qui a Calvi Risorta, territorio di 5000 anime, uscendo dall'autostrada a Capua e immergendosi nei sette km di tragitto, fatto di campi di coltivazione di frutta, di ulivi, frantoi, pianure e colline, paesaggi rilassanti e pannelli solari, viene da interrogarsi sulla follia che determina così tante e profonde ferite a una terra bellissima, di un sistema economico che spinge alla ricerca del profitto in maniera così parossistica da affidare a gruppi camorristi lo smaltimento dei rifiuti industriali tossici. Si questa terra ha già dato.

Così oggi l'Agro Caleno è terra di resistenza. E' lo slogan della giornata d'altronde. Non siamo Terra dei Fuochi ma Terra di Resistenza.

Arrivati in piazza del paese a Calvi in realtà la situazione sembra essere depressiva. Neanche un migliaia al concentramento. Pensi che comunque è un piccolo paese, probabilmente gentrificato come tanti di questi tempi e poco propenso alla mobilitazione. Questi sono i numeri e cerchi di fartene una ragione. Invece dalla partenza in poi è tutto un ingrossarsi. La gente semplicemente esce di casa e si accoda al corteo. I numeri, per quanta importanza gli si possa dare, cambiano drasticamente.Le carrozzine, le mamme coi bambini, gli anziani. Adesso è tutto più semplice da interpretare.

D'altronde gli uomini e le donne, i ragazzi e le ragazze del Comitato per l'Agro Caleno questo territorio lo conoscono a menadito. Sanno di che pulsioni vive. Ne conoscono il battito. Gli abitanti di questo paese non vogliono la centrale per i rifiuti. E oggi scendono in piazza.

Il sound system del corteo invece è del Centro Sociale Tempo Rosso di Pignataro, comune vicinissimo a Calvi. Reggae,rap e raggamaffin più cover degli Stormy Six a risuonare per i vicoli del paese. Nelle discese per arrivare alla Casilina. A intervallare gli interventi al microfono. Che invitano nella prima parte gli abitanti del paese a uscire di casa. Ad unirsi alla protesta. Come poi effettivamente accade.

A proposito di centri sociali da segnalare quella dei ragazzi di Zero81 di Banchi Nuovi a Napoli, arrivati qui a sostenere una lotta che riguarda anche loro abitanti della metropoli. Nessuno può ritenersi escluso da una lotta di autodeterminazione.

Soprattutto quando tra le rivendicazioni vi è quella di bonifiche a controllo popolare. Si perchè non sempre, anzi quasi mai, le poche bonifiche effettuate hanno portato dei reali miglioramenti, ma semplicemente si è messo in moto un meccanismo di clientele in grado di assicurare guadagni facili per pochi e zero benefici per la collettività. Spesso le bonifiche si sono rilevate farlocche. D'altronde basta corrompere un certificatore e il gioco è fatto. Soldi pubblici facili da incassare. Invece le bonifiche, che sono assolutamente necessarie perchè questa terra merita davvero, possono anche diventare traino di sviluppo economico, posti di lavoro basati sulla qualità in quanto destinati a migliorare la vita della collettività. E' questa la giusta prospettiva in uno scenario di lotta. Sono presenti, non a caso, anche gli attivisti di NO INCENERITORE di Giugliano, anche loro alle prese con analoghi problemi e anche loro loro convinti che le bonifiche debbano, a parte ovviamente risanare la terra, diventare un democratico e intelligente sistema di distribuzione di posti lavoro. 

Lo urla forte al microfono Chiara Iodice, giovane e stimatissima attivista locale, instancabile nello spiegare i perchè della protesta e nel denunciare l'atteggiamento assurdo della Prefettura di Caserta che a tutt'oggi nega un incontro al Comitato per discutere sulle sorti della Centrale a bio-masse. La manifestazione termina infatti con l'occupazione della strada Casilina, via consolare romana che conduce diritta alla capitale. Qui fa la comparsa un gazebo e diverse tende. La polizia per adesso si tiene lontano. Aspettiamo notizie per le prossime ore. Ma uno sgombero della strada e il ripristino del traffico non sarà comunque cosa drammatica. Spiacevole si ma la lotta non si fermerà di certo. L'Agro Caleno antagonista esiste e farà la sua parte in commedia. La parte del ribelle appunto.




Fonte: contropiano.org

sabato 27 giugno 2015

Vincenzo De Luca è stato sospeso da presidente della Campania

Lo ha comunicato Matteo Renzi: De Luca avrà però il tempo di nominare giunta e vice presidente, e potrà fare ricorso

Vincenzo De Luca, il 15 giugno a Napoli

Venerdì il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha comunicato la sospensione di Vincenzo De Luca – membro del Partito Democratico e presidente della regione Campania dal 31 maggio 2015 – dal suo incarico di presidente della Campania sulla base della legge Severino, una norma in vigore dal 2012 che regola l’incandidabilità e la decadenza dei politici eletti. La legge impone che gli amministratori pubblici condannati per certi reati – anche solo in primo grado – debbano essere sospesi per almeno 18 mesi. Nel gennaio 2015 De Luca è stato condannato a una pena di un anno per un reato di abuso d’ufficio risalente al 2008, legato alla realizzazione di un termovalorizzatore nel comune di Salerno, in Campania, di cui De Luca è stato sindaco per quattro mandati, l’ultimo dei quali è iniziato nel 2011.

De Luca è stato ufficialmente proclamato governatore della Campania il 18 giugno, ma già nei mesi in cui era candidato si era molto parlato della possibilità che una volta eletto potesse essere sospeso. La legge Severino impedisce di candidarsi a politici condannati in via definitiva, limitandosi invece a un’eventuale sospensione (successiva all’elezione) in caso di condanne non ancora definitive. Questa regola, però, vale solo per gli amministratori locali, non per i parlamentari. Renzi ha comunicato l’atto di sospensione di De Luca dopo un consiglio dei ministri e ha spiegato che il decreto è stato firmato «come previsto dalle norme di legge», «una volta ottenuto il nulla osta del ministro competente e acquisiti i pareri necessari».

Renzi ha anche detto di aspettarsi che ora De Luca farà ricorso a un giudice civile: «Sarà lui a dover valutare gli atti. Se volete la mia opinione, ribadisco, mi aspetto il ricorso come è naturale che sia. È sempre andata così in questi primi momenti di attuazione della Severino. E naturalmente il presidente De Luca valuterà». De Luca non ha ancora nominato né la giunta regionale né un vice presidente che lo possa sostituire nei mesi in cui sarà sospeso. Nelle ultime settimane si temeva che la sospensione di De Luca prima che lui potesse nominare giunta e vice presidente avrebbe portato a una complicata situazione di stallo. Renzi ha però spiegato che in base alla legge Severino De Luca avrà la possibilità di effettuare le nomine prima della sua effettiva sospensione: la decisione della sospensione, infatti, deve ora compiere un percorso burocratico abbastanza complicato prima di diventare efficace.

De Luca e il suo staff non hanno per il momento commentato l’avvenuta sospensione e le parole di Renzi. Alcune settimane fa De Luca aveva però detto che in caso di sospensione avrebbe fatto ricorso al tribunale ordinario – e non più al TAR, come fece già da sindaco di Salerno – per chiedere la sospensione degli effetti della legge Severino in attesa che la Corte Costituzionale si esprima sulla legge, accusata da molti di violare la Costituzione. Ancora prima di essere eletto De Luca aveva parlato della legge Severino in un’intervista a Repubblica, in cui aveva detto, ipotizzando la sospensione che da ieri è effettiva:

Un minuto dopo ci sarà ricorso al TAR. Lo ribadisco a testa alta come sempre ho fatto contro tutti i tentativi di mummificare la vita politica e amministrativa dentro regole che hanno in sé evidenti violazioni costituzionali, o paradossi: e la battaglia contro la Severino è una battaglia di civiltà.

De Luca ha 66 anni e fa politica da quando ne aveva venti. È nato in provincia di Potenza, nel 1949, ma si è trasferito quasi subito a Salerno. Si è iscritto al PCI da giovane, ha lavorato come sindacalista nel settore agrario e nel 1990 ha avuto i primi incarichi nell’amministrazione comunale della sua città. Nel 1993 è stato eletto sindaco di Salerno e lo è rimasto per quasi vent’anni fino al febbraio di quest’anno, con una sola pausa di cinque anni nel mezzo. Nel 2010 si era già candidato alle elezioni regionali con il PD, ma era stato sconfitto da Stefano Caldoro del Popolo della Libertà, il candidato che De Luca ha battuto nelle elezioni del 2015. La condanna di De Luca riguarda avvenimenti del 2008, quando De Luca era – oltre che sindaco – anche stato nominato dal governo commissario per la gestione del rifiuti nella provincia di Salerno.

Fonte: Il Post

Quel filo nero che unisce le stragi in Tunisia, Francia, Kuwait

Tre stragi diversi, in contesti diversi, nel medesimo giorno. Coordinate o meno, dimostrano la capacità dell’Isis di fare proseliti e colpire ovunque

Davide Vannucci

BECHIR TAIEB/AFP/Getty Images

Qualche tempo fa un'interessante tabella, elaborata dal sito Middle East Eye, mise a confronto i sistemi penali dell'Isis e dell'Arabia Saudita. Le somiglianze erano notevoli, proprio perché, nella sostanza, i due fronti condividevano e condividono la medesima ideologia. In quell'infografica c'è tutta l’ambiguità di regimi che combattono un nemico con il quale hanno in comune un sistema di valori, e che, peraltro, è sostenuto economicamente da individui facoltosi di quegli stessi Paesi.

Le monarchie del Golfo Persico – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar - partecipano alla coalizione internazionale contro lo Stato Islamico, in Siria e in Iraq. E l’obiettivo del Califfo - o chi per lui - è quello di fare tabula rasa dello status quo in Medio Oriente, abbattere i governi della regione, sterminare gli sciiti e riunire tutti i sunniti sotto la sua guida. Ma in Siria, grande incubatrice del jihad di questi anni, questi regimi hanno giocato un ruolo di primo piano, finanziando il tentativo di rovesciare Assad. E adesso, dopo che il Califfo è diventato il nemico numero uno della comunità internazionale, si ritrovano il giardino di casa trasformato in un potenziale campo di battaglia. L’attentato di giovedì 26 giugno nella moschea sciita dell’imam al-Sadiq, a Kuwait City, contemporaneo all’azione compiuta in un impianto di gas vicino a Lione e all’assalto jihadista su una spiaggia di Sousse, in Tunisia, non solo ha mostrato la capacità di azione del jihad, in grado di colpire in luoghi così diversi, ma ha segnato la comparsa del terrore nel cuore di una capitale del Golfo.

Non è ancora chiaro se vi sia stato un qualche livello di coordinamento, o se, più probabilmente, si sia trattato di gruppi ed individui isolati, ispirati dalla propaganda del Califfato. Certamente l’attacco kamikaze nel centro di Kuwait City – almeno venticinque morti, più di duecento feriti – durante la preghiera del venerdì è stato l’attentato più grande degli ultimi anni nelle monarchie del Golfo. Tra le vittime, un ragazzo di sedici anni, Mohammed Ahmed al-Jaafar e un professore di scienze sociali, Jasem al-Khawaja. L’Isis ha rivendicato l’azione, attribuendola a un certo Abu Suleiman al-Muwahhad.

In Kuwait una quota piuttosto significativa della popolazione (tra il venti e il tenta per cento) è sciita e le tensioni settarie sono cresciute negli ultimi mesi. I foreign fighters kuwaitiani del Califfato sono meno di un centinaio, ma in tempi recenti la polizia ha compiuto alcuni arresti e ha sequestrato vario materiale esplosivo. Più in generale, negli ultimi mesi l’Isis ha alzato il livello della sfida contro i Paesi del Golfo, prendendo di mira la comunità sciita. Lo scorso 22 maggio maggio a Qatif, nella parte orientale dell’Arabia Saudita, un attentato ha ucciso 21 persone e ne ha ferite 120. Una settimana dopo un’autobomba ha colpito l’ingresso della moschea sciita di al-Anoud, a Damman: quattro morti. Gli analisti hanno parlato di azioni isolate, frutto di lupi solitari, incoraggiati da al Baghdadi e dalle sue invettive contro la casa reale dei Saud, ma non si può escludere un certo grado di coordinamento. Il Califfato, comunque, ha rivendicato gli attentati, il cui obiettivo è quello di fomentare ulteriormente le tensioni tra sunniti – la grande maggioranza – e sciiti – quindici per cento della popolazione – ed insediarsi sempre di più in Arabia. Si stima che 2.500 sauditi siano partiti per combattere in Siria e in Iraq assieme all'Isis, tant’è che il regno ha dovuto introdurre norme specifiche contro i foreign fighters.

D’altra parte, come detto, i Paesi del Golfo sono sempre stati accusati di essere responsabili dell’espansione del Califfato, a causa del sostegno, economico e militare, alle fazioni islamiste che combattono Assad. Inoltre l'Isis, ha goduto – e, secondo alcuni, come i curdi iracheni, continua a godere – di fondi consistenti da parte di uomini del Golfo – Qatar, soprattutto, ma anche Kuwait e Arabia Saudita – mentre le autorità che chiudono un occhio. È proprio il Kuwait, Paese in cui riciclare denaro non è un’impresa, ad essere il centro di questi canali di finanziamento. «Tutti sanno che il denaro per i gruppi estremisti in Siria ed Iraq viene dai Paesi del Golfo, attraverso il sistema bancario del Kuwait», sostiene Andrew Tabler, del Washington Institute for Near East.

L'assalto di Sousse, invece, ricorda per molti aspetti quello compiuto al Museo del Bardo di Tunisi lo scorso marzo. Non è difficile capire perché il Califfato abbia preso di mira il “Paese dei gelsomini” e perché il bersaglio sia stato proprio un resort turistico. La Tunisia è l’unico esempio di primavera araba relativamente compiuta, l’unico caso in cui, caduto il regime, laici ed islamisti – malgrado alcune ambiguità che hanno segnato la prima fase governativa di Ennahda, i Fratelli Musulmani locali – sono riusciti a trovare un’intesa. Quella tunisina non è success story completa, perché l’economia ancora traballa e i problemi di sicurezza restano. Colpire il turismo, una delle maggiori fonti di reddito e di valuta straniera, terrorizzando ignari bagnanti con una vera e propria azione di guerra, rappresenta un paradigma perfetto per il jihad.

D’altronde, in Tunisia, dopo la fine della dittatura di Ben Ali, la propaganda salafita ha avuto più spazio e sempre più persone si sono avvicinate al fondamentalismo (i tunisini, secondo la maggior parte delle stime, sono il gruppo più numeroso tra i foreign fighters del Califfo). La guerra civile libica offre loro un campo d’azione a portata di confine (piuttosto poroso, peraltro). Nella catena di comando dello Stato Islamico in Libia ci sono molti tunisini, ma anche in patria i miliziani del Califfato si sono segnalati per alcune azioni eclatanti. Lo scorso 16 giugno, ad esempio, l’Isis ha rivendicato un attacco agli uffici della guardia nazionale di Sidi Bouzid, la città dell'entroterra simbolo della primavera araba, perché fu proprio lì che l’auto-immolazione del giovane Mohammed Bouazizi innescò la miccia della rivolta contro Ben Ali. E Sousse, d'altra parte, è considerato uno dei bacini più importanti per il jihad. Alcuni dati parlano di un migliaio di militanti partiti dalla città per unirsi alla causa del Califfato. Quartieri come Al Qalaa Al Kubra ("Il Grande Castello"), Al Riyadh, Al Shabab e Hamam Soussa sono centri nevralgici del reclutamento, assieme a zone periferiche come Herkalion e Sidi Abdelhamid. Già in passato non erano mancati episodi di violenza: nel 2012 la stazione di polizia di Sud Sousse venne assalita da due salafiti, che furono uccisi. Nel 2013 fu il turno di un attacco kamikaze. L’azione di ieri, però, denota un salto di qualità notevole - il bilancio, ancora provvisorio, è di 37 morti - con un impatto economico importante, considerato che ogni anno la città riceve un milione di turisti.

Secondo un’inchiesta della rete qatariota al Jazeera, sebbene non manchino jihadisti di buona famiglia, i foreign fighters di Sousse, che hanno in gran parte un’età compresa tra i 20 e i 30 anni, vengono soprattuto dai distretti della working class, dove alla povertà e alla marginalità sociale si unisce la mancanza di istituzioni religiose. Il giovane militante, quindi, può essere attratto dal denaro, o comunque risultare più sensibile alla propaganda dei predicatori che inondando la rete e le televisioni via cavo.

Kuwait, Tunisia, Francia. Una capitale del Golfo, un Paese arabo che guarda all'Occidente, uno Stato europeo alle prese con un nemico interno difficile da individuare, controllare e disinnescare. Tre luoghi culturalmente diversi, ma legati da un solo filo conduttore, in un giorno simbolico, un venerdì del mese sacro di Ramadan, a quasi un anno di distanza da quel 29 giugno in cui Abu Bakr al Baghdadi proclamò la nascita del Califfato.

Fonte: Linkiesta.it

Il gruppo Stato islamico rivendica l’attentato in Tunisia

Lo Stato islamico rivendica l’attentato sulla spiaggia di Sousse, in Tunisia, con 39 morti


Il gruppo Stato islamico ha rivendicato l’attentato di ieri sulla spiaggia di Sousse, in Tunisia, in cui hanno perso la vita 39 persone, tra cui molti stranieri. In un comunicato diffuso dai jihadisti su Twitter si spiega che “un soldato del califfato ha potuto raggiungere l’obiettivo”, uccidendo circa 40 persone, “per la maggior parte provenienti da stati dell’alleanza crociata che combatte lo stato del Califfato”. Le vittime sono “per la maggior parte cittadini” britannici, ha confermato il primo ministro tunisino Habib Essid. Ma tra le persone uccise ci sono anche tedeschi, belgi e francesi. Tra la quarantina di feriti ci sono britannici, belgi, tedeschi e norvegesi.

Dopo l’attacco sulle coste del golfo di Hammamet, le autorità locali hanno deciso di fare chiudere circa 80 moschee accusate di incitamento alla violenza. In questi luoghi, ha detto il governo, non c’è controllo statale e saranno chiusi in settimana.

L’autore dell’attentato si chiamava Seifeddine Rezgui, uno studente tunisino nato nel 1992. Era sconosciuto ai servizi di sicurezza locali ed è stato ucciso dalla polizia durante la sparatoria. “E’ entrato dalla spiaggia, vestito come uno che avrebbe voluto fare il bagno. Aveva un ombrellone per nascondere il kalashnikov. Arrivato sul posto, ha usato le sue armi”, ha spiegato il segretario di Stato per la Sicurezza Rafik Chelly. 

Intanto, centinaia di turisti stranieri cercano di lasciare il paese. Molti sono stati accompagnati in autobus all’aeroporto di Enfidha, a metà strada tra Tunisi e Sousse. Tredici voli sono stati organizzati nella notte con destinazione Londra, Manchester, Amsterdam, Bruxelles e San Pietroburgo.

Il ministro del Turismo Selma Elloumi Rekik ha riconosciuto che l’attacco di ieri è stato “un duro colpo per la Tunisia”. Dopo l’attacco al museo Bardo di Tunisi dello scorso mese di marzo, il settore strategico del turismo tunisino ha registrato un calo del 25,7% su base annua di turisti. Il settore rappresenta circa il 7% del Prodotto interno lordo della Tunisia.

Fonte: Internazionale

Un appello alla stampa responsabile

Perché non recensire ogni giorno i siti web virtuosi e segnalare quelli che spacciano bufale? Un servizio al pubblico sempre più necessario


L'opinione di Umberto Eco

Mi sono molto divertito con la storia degli imbecilli del web. Per chi non l’ha seguita, è apparso on line e su alcuni giornali che nel corso di una cosiddetta “lectio magistralis” a Torino avrei detto che il web è pieno di imbecilli. È falso. La “lectio” era su tutt’altro argomento, ma questo ci dice come tra giornali e web le notizie circolino e si deformino.

La faccenda degli imbecilli è venuta fuori in una conferenza stampa successiva nel corso della quale, rispondendo a non so più quale domanda, avevo fatto un’osservazione di puro buon senso. Ammettendo che su sette miliardi di abitanti del pianeta ci sia una dose inevitabile di imbecilli, moltissimi di costoro una volta comunicavano le loro farneticazioni agli intimi o agli amici del bar - e così le loro opinioni rimanevano limitate a una cerchia ristretta. Ora una consistente quantità di queste persone ha la possibilità di esprimere le proprie opinioni sui social networks. Pertanto queste opinioni raggiungono udienze altissime, e si confondono con tante altre espresse da persone ragionevoli.

Si noti che nella mia nozione di imbecille non c’erano connotazioni razzistiche. Nessuno è imbecille di professione (tranne eccezioni) ma una persona che è un ottimo droghiere, un ottimo chirurgo, un ottimo impiegato di banca può, su argomenti su cui non è competente, o su cui non ha ragionato abbastanza, dire delle stupidaggini. Anche perché le reazioni sul web sono fatte a caldo, senza che si abbia avuto il tempo di riflettere.

È giusto che la rete permetta di esprimersi anche a chi non dice cose sensate, però l’eccesso di sciocchezze intasa le linee. E alcune scomposte reazioni che ho poi visto in rete confermano la mia ragionevolissima tesi. Addirittura, qualcuno aveva riportato che secondo me in rete hanno la stessa evidenza le opinioni di uno sciocco e quelle di un premio Nobel, e subito si è diffusa viralmente una inutile discussione sul fatto che io avessi preso o no il premio Nobel. Senza che nessuno andasse a consultare Wikipedia. Questo per dire come si è inclini a parlare a vanvera.

Un utente normale della rete dovrebbe essere in grado di distinguere idee sconnesse da idee ben articolate, ma non è sempre detto, e qui sorge il problema del filtraggio, che non riguarda solo le opinioni espresse nei vari blog o twitter, ma è questione drammaticamente urgente per tutti i siti web, dove (e vorrei vedere chi ora protesta negandolo) si possono trovare sia cose attendibili e utilissime, sia vaneggiamenti di ogni genere, denunce di complotti inesistenti, negazionismi, razzismi, o anche solo notizie culturalmente false, imprecise, abborracciate.

Come filtrare? Ciascuno di noi è capace di filtrare quando consulta siti che riguardano temi di sua competenza, ma io per esempio proverei imbarazzo a stabilire se un sito sulla teoria delle stringhe mi dica cose corrette o meno. Nemmeno la scuola può educare al filtraggio perché anche gli insegnanti si trovano nelle mie stesse condizioni, e un professore di greco può trovarsi indifeso di fronte a un sito che parla di teoria delle catastrofi, o anche solo della guerra dei trent’anni.

Rimane una sola soluzione. I giornali sono spesso succubi della rete, perché ne raccolgono notizie e talora leggende, dando quindi voce al loro maggiore concorrente - e facendolo sono sempre in ritardo su Internet. Dovrebbero invece dedicare almeno due pagine ogni giorno all’analisi di siti web (così come si fanno recensioni di libri o di film) indicando quelli virtuosi e segnalando quelli che veicolano bufale o imprecisioni. Sarebbe un immenso servizio reso al pubblico e forse anche un motivo per cui molti navigatori in rete, che hanno iniziato a snobbare i giornali, tornino a scorrerli ogni giorno.

Naturalmente per affrontare questa impresa un giornale avrà bisogno di una squadra di analisti, molti dei quali da trovare al di fuori della redazione. È un’impresa certamente costosa, ma sarebbe culturalmente preziosa, e segnerebbe l’inizio di una nuova funzione della stampa.

Fonte: L'Espresso

Leggi anche: Umberto Eco: "Con i social parola a legioni di imbecilli"

venerdì 26 giugno 2015

I matrimoni gay sono legali in tutti gli Stati Uniti

La Corte Suprema americana ha deciso: il gay marriage è legge comune a tutti gli Usa


I matrimoni gay sono legali in tutti gli Stati Uniti d’America: a deciderlo è stata la Corte Suprema Usa che ha legalizzato, con una sentenza storica, le nozze fra persone dello stesso sesso in tutto lo spazio federale. La sentenza, che è già storica, è il caso Obergefell v. Hodges, una pronuncia che invalida “qualsiasi limitazione alle unioni fra persone dello stesso sesso”.

Fonte: Giornalettismo

Cosa sappiamo dell’attentato vicino a Lione

Il corpo di un uomo è stato trovato decapitato in una fabbrica, un attentatore è stato ucciso e un altro è stato arrestato: il governo francese ha parlato di terrorismo islamico

Alcuni poliziotti e pompieri francesi all'entrata della fabbrica di Air Products a Saint-Quentin-Fallavier (PHILIPPE DESMAZES/AFP/Getty Images)

Questa mattina c’è stato un attacco in una fabbrica di un’azienda che si occupa di gas a Saint-Quentin-Fallavier, nel sudest della Francia, nei pressi di Lione. Alcuni uomini – due, secondo i giornali francesi – hanno fatto schiantare la propria macchina all’entrata della fabbrica, causando un’esplosione. Non è ancora chiaro cosa sia successo dopo l’esplosione: sul posto, in seguito, è stato trovato un uomo decapitato sul cui corpo c’erano delle scritte in arabo, e due bandiere con altre scritte in arabo. Ci sono anche due feriti, come ha confermato il presidente francese François Hollande. Un sospettato è stato ucciso da un pompiere, mentre un altro è stato arrestato. Lo stesso Hollande durante una conferenza stampa ha definito l’attacco un attentato terroristico, e che l’intento era quello di provocare un’esplosione. Il ministro degli Interni Bernard Cazeneuve ha detto invece che il sospettato arrestato era stato “segnalato” e messo sotto inchiesta nel 2006 per alcuni legami col terrorismo islamista salafita (una corrente di pensiero dell’Islam sunnita). L’inchiesta era stata però abbandonata nel 2008. Nel pomeriggio, la moglie del sospettato è stata arrestata a Lione.

Alcuni account Twitter legati all’ISIS hanno scritto che la bandiera islamista di cui parlano i giornali francesi appartiene all’ISIS, ma l’informazione non è ancora stata verificata ed è da prendere con le molle. Una fonte del ministero dell’Interno contattata da Libération ha detto che per il momento non c’è nessun elemento che colleghi l’attacco all’ISIS.

L’azienda coinvolta nell’attacco si chiama Air Products: è statunitense è stata fondata nel 1940 e si occupa di gas tecnici e medicinali. Libération scrive che ha circa 21mila dipendenti e che lavora in più di 50 paesi al mondo. Il giornale locale Le Dauphiné Libéré ha pubblicato un video girato nelle vicinanze della fabbrica di Air Products dopo l’attacco.



(il discorso di Hollande sull’attentato, tradotto in inglese dal Guardian)



 Fonte: Il Post

L'attacco a un hotel in Tunisia

In un attacco nella località turistica di Sousse, in Tunisia, sarebbero morte almeno 27 persone


Almeno 27 persone sono state uccise in un attacco avvenuto vicino a due hotel nella località turistica di Sousse, su una spiaggia nel nord della Tunisia. La maggior parte delle vittime è straniera, ma la nazionalità non è ancora stata confermata.

Secondo le prime testimonianze, un uomo armato è stato ucciso dalle forze dell'ordine, mentre un altro è riuscito a scappare. La polizia sta ancora ripulendo l'area intorno all'Imperial Marhaba hotel.

La Tunisia era in stato d'allerta dal 18 marzo, quando un gruppo di miliziani aveva ucciso 22 turisti nel museo del Bardo, nella capitale Tunisi. Nel 2014 c'era stato un altro attentato sucida sulla spiaggia di Sousse, ma non c'erano state vittime.

Un uomo britannico che si trovava in vacanza a Sousse ha riferito di aver sentito l'attacco da un hotel vicino. Dalla sua camera ha visto un uomo con una pistola, ma non ha saputo dire se si trattasse di un attentatore o di un membro delle forze dell'ordine.

Il gruppo militante dell'Isis aveva incitato i suoi seguaci ad aumentare gli attacchi durante il mese di digiuno del Ramadan, ma l'attacco a Sousse finora non è stato rivendicato.

Per adesso non sembrano esserci collegamenti tra l'attacco di Sousse e l'altro - avvenuto nella stessa giornata di venerdì 26 giugno e rivendicato dall'Isis - a una moschea sciita a Kuwait City. Sempre nella stessa giornata un altro attacco ha colpito una fabbrica vicino Lione, in Francia, dove si sono verificate diverse esplosioni ed è stato ritrovato il corpo di un uomo decapitato.

La città di Sousse si trova sulla costa nord-orientale della Tunisia.


Qui sotto, una mappa indica il luogo dell'attentato nella città di Sousse, in Tunisia. Credit: Guardian


Fonte: The Post Internazionale

giovedì 25 giugno 2015

L'attacco dell'Isis a Kobane

L'Isis ha lanciato una nuova offensiva contro la città siriana di Kobane, che era stata liberata dalle forze curde a gennaio

Un uomo cammina tra le rovine di Kobane, in Siria. Credit: Osman Orsal

I miliziani dell'Isis sono rientrati a Kobane, città nel nord della Siria, al confine con la Turchia, che era stata liberata dalle forze curde a gennaio. Gli scontri sono iniziati nella notte tra il 24 e il 25 giugno e sono ancora in corso. L'Isis ha fatto esplodere due autobombe, che hanno ucciso circa 30 persone. Secondo gli attivisti siriani, i combattenti dell'Isis avrebbero ucciso altre venti persone in un villaggio vicino a Kobane.

I miliziani della Forze di Difesa del Popolo curdo (Ypg) hanno consigliato ai civili di restare nascosti nelle proprie case, ma dozzine di persone hanno cercato di fuggire per mettersi al riparo dai combattimenti.

Per entrare a Kobane alcuni miliziani dell'Isis si sono travestiti da curdi, indossando le uniformi delle milizie dell'Ypg. Altri invece si sono nascosti tra le fila dei rifugiati che ritornavano nelle loro case a Kobane. Da quando la città è stata riconquistata, tra le 30mila e le 35mila persone hanno fatto ritorno a Kobane, che prima del conflitto contava circa 400mila abitanti.

Alcuni attivisti curdi hanno inoltre accusato la Turchia di aver permesso ai combattenti dell'Isis di attraversare la frontiera turco-siriana, ma un portavoce del ministro degli Esteri della Turchia ha respinto le accuse.

La mattina del 25 giugno l'Isis ha lanciato un'offensiva anche contro Hassakeh, la città più grande nel nordest della Siria, conquistando diversi quartieri. Secondo l'Osservatorio per il diritti umani in Siria, nell'attacco sono morti almeno 30 soldati siriani e 20 jihadisti.

Kobane era stata liberata dall'Isis il 26 gennaio 2015. Dopo 134 giorni di combattimenti, le forze armate curde siriane del Ypg e Ypj, con il sostegno di attacchi aerei americani e dei peshmerga iracheni, erano riusciti a riconquistarla e avevano costretto i miliziani dell'Isis alla ritirata. Fu una vittoria simbolica, che dimostrò che l'Isis non era invincibile.

La scorsa settimana l'Isis ha perso diverse postazioni nella provincia di Raqqa, in Siria, tra cui le città di Tal Abyad e Ain Issa ma questa nuova offensiva su Kobane segna una nuova fase dell'avanzata in Siria.

Mappa della Siria e delle aree conquistate dall'Isis. Credit: Bbc


Fonte: The Post Internazionale

Campania. Rabbia e mobilitazione contro la discarica di Calvi Risorta


Di Ivan Trocchia

Ennesima emergenza ambientale e sanitaria in Campania dopo la scoperta da parte delle Guardie Forestali di una discarica abusiva presso l’area dell’ex Pozzi Ginori a Calvi Risorta in provincia di Caserta.
Discarica che è stata classificata come la più grande mai scoperta sinora, in un territorio dove molteplici sono stati i ritrovamenti negli ultimi due decenni. Si tratta di materiali chimici in forma liquida che a contatto con la terra hanno provocato lo sprofondamento dei rifiuti a una profondità notevole rendendo complicata la bonifica e probabilmente contaminando le falde acquifere. I rifiuti chimici provengono molto probabilmente, cosi come si evince dalla dichiarazioni del defunto pentito di camorra Carmine Schiavone, dalle fabbriche del Nord Italia. In realtà sono almeno dieci anni che tale sito è segnalato da diverse associazioni come inquinato da rifiuti tossici interrati e non si capisce perché ci sia voluto tanto tempo per effettuare i dovuti controlli.
Adesso ovviamente è il momento della rabbia e dell’indignazione. Per l’ennesima volta, sperando che le istituzioni preposte facciano finalmente il loro dovere avviando le bonifiche del territorio e la messa in sicurezza dell’ambiente circostante.
In realtà se siamo arrivati a questo punto è proprio per via delle istituzioni che avrebbero dovuto vigilare e non lo hanno fatto. Perché se è “normale” che la Camorra cerchi di lucrare cinicamente sullo smaltimento dei rifiuti industriali tossici e che una certa imprenditoria cerchi di risparmiare e quindi aumentare i propri profitti affidando ai camorristi e a ditte compiacenti lo smaltimento, non è però normale che tutte le istituzioni in campo siano risultate assenti o collaborative.
Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza, Asl, Arpa, enti locali e finanche i servizi segreti appaiono, salvo rarissime soggettive eccezioni, come protagonisti negativi di questa e di altre vicende. Impressionante il numero di funzionari pubblici corrotti, un quadro da repubblica delle banane più che da moderno stato democratico.
Così il Comitato per l’agro Caleno , già attivissimo sul territorio nella lotta alla Centrale a Biomasse di recente progettazione, ha indetto una mobilitazione popolare per sabato pomeriggio 27 giugno, alle 17.00, proprio a Calvi Risorta.
Le parole d’ordine della manifestazione sono "No alla Centrale a Biomasse", "No al Commissariamento per la bonifica", "Si alle bonifiche sotto controllo popolare".
Perché quello delle bonifiche è il punto nodale e principale. I comitati di lotta da anni insistono perché queste avvengano sotto controllo pubblico e che diventino anche un’occasione per creare posti di lavoro in territori dove la disoccupazione riguarda, nel migliore dei casi, almeno un terzo della popolazione attiva.
Insomma la terra dei fuochi, già terra del lavoro, deve trasformarsi in terra di resistenza. Non ci sono alternative. L'appuntamento è a sabato pomeriggio. Almeno la dignità, quella no, non possono sotterrarla.

Fonte: contropiano.org

#Caporalato, la schiavitù moderna


È mattina presto. Come ogni giorno esci di casa. Ogni giorno hai sempre meno speranze di trovare lavoro. Si avvicina un uomo che ti dice che ti può aiutare. Ha un lavoro per te. Si tratta di un lavoro in campagna. Accetti. Ti presenti il giorno successivo. Si inizia a lavorare alle cinque del mattino. Si finisce alle cinque del pomeriggio. Solo un’ora di pausa per il pranzo. Facce sconvolte, per coloro che sono al primo giorno di lavoro. Facce stanche, per chi ormai si è abituato. Facce senza nemmeno più l’ombra di speranza, per chi ormai ci lavora da anni.

Anziani, uomini di mezz’età, donne e ragazzi. Molti non sono nemmeno maggiorenni. Non sono ammessi sbagli, nemmeno se sei al tuo primo giorno di lavoro. Se sei troppo lento, ti arrivano schiaffi tremendi dietro la testa, accompagnati dall’urlo: ‘Devi andare più veloce! Ti pago per produrre!’. E se solo ti permetti di alzare gli occhi, di schiaffi ne arrivano altri due. Uno perché stai perdendo altro tempo. Un altro perché devi capire chi comanda.

‘Devi stare zitto!’ è un’altra frase che si sente dire molte volte. E spesso devi stare zitto per forza. Perché a casa hai due figli a cui dare da mangiare. E non puoi permetterti di perdere questo lavoro. Perché è proprio questa la cosa più vile. Che sfruttano la disperazione della gente.

Quando ti presenti il tuo primo giorno di lavoro, una delle prime cose che ti dicono è come comportarti se dovesse arrivare la guardia di finanza. Devi scappare. In qualunque direzione, devi correre il più lontano possibile. E non importa se non sei del posto, se quando ti fermi non sai dove ti trovi. Devi correre e basta. Se sei fortunato, troverai qualcuno disposto a darti un passaggio al centro abitato più vicino.

Per 12 ore di lavoro nei campi, sfruttato, maltrattato, disperato, vieni retribuito dai 20 ai 25 euro. Puoi arrivare a 28-30 euro se sei un lavoratore esperto. Che in gergo significa: se sei stato sfruttato per parecchi anni. E una parte del tuo ‘stipendio’, se cosi si può chiamare, viene trattenuto da chi, quel lavoro, te l’ha procurato: il ‘caporale’.

Stiamo parlando del caporalato. È un fenomeno diffusissimo, ma se ne parla poco. Troppo poco. È un fenomeno criminale. E disumano. Sfrutta la disperazione e i bisogni delle persone, spesso reclutate la mattina stessa in cui iniziano a lavorare. Italiani, africani, afghani,europei o asiatici. Chiunque.

No, non è la schiavitù negli Stati Uniti d’America, nel 1800. È la schiavitù in Italia, nel 2015.

Fonte: Qualcosa di Sinistra

mercoledì 24 giugno 2015

L’ISIS distrugge due siti storici a Palmyra

I due antichi mausolei sono stati fatti esplodere perchè "Simboli del politeismo"


L’Isis ha fatto saltare in aria due antichi mausolei nei pressi del sito archeologico di Palmira, in Siria, affermando di aver distrutto “un simbolo del politeismo”.

LA DISTRUZIONE DELL’ISIS Stando a quanto riferito dall’Associated Press, il direttore del dipartimento Musei e Antichità di Damasco Maamoun Abdulkarim, ha spiegato che una delle tombe appartiene a Mohammad Bin Ali, un discendente del profeta islamico. È stata proprio l’Isis, attraverso Wilayat Homs, a pubblicare due foto di quello che rimane del mausoleo del cugino di Maometto. Il servizio è intitolato “L’eliminazione dei simboli politeisti” e l’Ondus, citata dai media, ha confermato l’avvenuta distruzione.

Fonte: Giornalettismo

Mafia Capitale. Ecco perché Marino dovrebbe dimettersi


Su ‘Mafia capitale’ si è detto molto e forse le pagine più nere riguardanti la gestione del potere nella Roma dei faccendieri sono ancora da scrivere. Difficile in realtà riportare notizie nei giorni del tintinnio delle manette quando le indiscrezioni corrono veloci e sui giornali si pubblica di tutto: intercettazioni, fotografie, ricostruzioni di quarta mano, interviste basate sul sentito dire. Frustrante per chi fa informazione, figuriamoci quanto lo sia per il lettore che il più delle volte viene immerso in un racconto romanzesco in cui pure i personaggi hanno i volti, la retorica e i nomi dei libri, salvo poi ritrovarsi a scontare il resoconto della prova dei fatti, quella prova richiesta affinché il diritto penale possa esercitare la propria funzione afflittiva, e mai capace di confermare fino in fondo quella trama dipinta sulle prime pagine dei giornali.

Colpa di un uso mediatico della giustizia da parte dei pm, colpa dei giudici sempre restii ad applicare sonore pene, colpa dei giornalisti che hanno inventato tutto, colpa dei colletti bianchi che la fanno sempre franca. Insomma la caccia al responsabile del ‘nulla di fatto’ fa parte della trama già scritta di ogni scandalo italiano da che esiste la repubblica ad oggi, una trama che ha sempre lo stesso finale gattopardesco, col malaffare che si ricicla e la politica che si giustifica. Tutto vero, ma ‘mafia capitale’ è una storia che porta con sé due grandi verità: la prima è che il diritto è un qualcosa che trascende dai titoloni dei giornali e che tutto si può pretendere dalla giustizia salvo di assolvere ad un compito, quello di sostituire una classe dirigente inetta e corrotta, di cui dovrebbe farsi carico la società stessa; la seconda è che se è difficile individuare dei soggetti penalmente colpevoli la politica non è affatto esente da responsabilità, è per questo che il sindaco di Roma Ignazio Marino dovrebbe rassegnare le dimissioni.

Per spiegare quella che può sembrare una conclusione affrettata e tacciabile di «giustizialismo» bisogna partire da un primo presupposto: la politica non è una professione e dunque un incarico involgente una funzione pubblica e di rappresentanza non può essere protetto dalle medesime garanzie vigenti in materia di occupazione. Chiariamo un altro punto: nessuno è obbligato a rivestire incarichi politici, se si ha la fortuna di essere assegnatari di una funzione pubblica riconducibile ad una carica elettiva e di esercitare la rappresentanza per la buona amministrazione della cosa pubblica, questo dovrebbe essere un onore ed un onere, con un inizio ed una fine, da doversi esercitare presumibilmente con spirito di servizio e nel pieno rispetto degli interessi della collettività. Infine la terza premessa: responsabilità penale e responsabilità politica sono due cose distinte e guai a confonderle, così come la dignità di una persona non è assimilabile con il rango della propria carica che, dunque, se venisse meno ancorché ingiustamente, niente affatto inciderebbe su alcun diritto personalissimo dell’individuo diverso da quell’elettorato passivo comunque configurabile come sottoposto e funzionale al più elevato interesse al benessere collettivo.

Il benessere collettivo, appunto, quell’interesse generalissimo calpestato da decenni di malaffare e di collusione tra politica e faccendieri che da sempre governa la capitale incidendo sull’operato di amministrazioni di diversi colori spesso ignare di tutto. Rispetto a questo sottobosco di cui a Roma sembra che tutti sappiano ma di cui nessuno osa parlare, quale può essere la risposta della politica se non un’assunzione di colpe anche da parte di un onesto e tutto sommato buon sindaco come Marino? Certo la figura del primo cittadino è scevra da ogni ombra, come gli accertamenti sin qui effettuati hanno dimostrato, ed anzi, per dirla con le parole dello stesso sindaco, sarebbe essa medesima parte lesa, ma che le intere istituzioni politiche della capitale siano totalmente delegittimate dopo uno scandalo di tale portata rimane un dato di fatto. Non ha forse governato Marino sino a qualche settimana fa con alcuni degli indagati? D’accordo nessuno è stato condannato né il sindaco può essere responsabile di azioni altrui. Ma come si fa a dire di voler portare il cambiamento se si governa coi voti raccolti nelle liste di un partito che a livello locale è stato definito da Fabrizio Barca «pericoloso e clientelare». Come se non fosse già di per sé un’enorme responsabilità quella di governare con l’appoggio di un partito locale «impresentabile» quale è il Pd romano di oggi.

Più che un invito, a ben vedere, questo potrebbe essere un consiglio personale da dare al sindaco Marino. Promettere ai cittadini un cambiamento è inutile se non cambia l’intero modo di fare politica a Roma. Una città che, al di là dei problemi giudiziari dei tanti faccendieri collusi con le amministrazioni degli ultimi decenni, è oggi più che mai assediata dal degrado delle periferie, da enormi falle nella gestione e l’erogazione dei servizi, una città il cui territorio è continuamente sotto la costante pressione di molti costruttori che oltre a mangiare il verde oggi minacciano di inghiottire quartieri storici con una loro precisa identità; una città in cui 50mila persone vivono senza casa eppure si pensa a sgomberare i campi nomadi come se questa fosse la panacea di tutti i mali, una città sempre più razzista dove gli immigrati hanno le loro zone, i loro bus, le loro scuole mentre i loro figli imparano una lingua italiana fredda che non conosce la parola integrazione. Una città, insomma, afflitta dai tanti mali di molte capitali europee, alcuni endemici e tipici di una Roma che tarda a sprovincializzarsi, altri un po’ comuni alle grandi metropoli del nostro tempo. Non tutte, ad anzi forse nessuna di queste criticità è da attribuire alla responsabilità dell’attuale primo cittadino, ma non è forse una manifestazione di impotenza quella di un sistema di governo locale che rischia di essere commissariato «per corruzione» (o per mafia)?

E allora, senza per questo dare ragione a Renzi, il più vecchio tra i giovani politici nel soffiare sul collo dell’avversario politico interno Marino, proprio le dimissioni potrebbero essere un punto di partenza per chiamarsi fuori e cominciare a fare chiarezza e pulizia dall’esterno.Proprio per questo le dimissioni sono da intendere come uno strumento di lotta politica e di correttezza verso l’elettorato, soprattutto se accompagnate da un atto di accusa che spieghi ai romani il vero funzionamento della macchina burocratica che ad oggi governa il comune di Roma persino fuori, a quanto pare, dal controllo degli organi eletti. Ad oggi il sindaco non la vede così, serra i ranghi contro i critici (anche del governo) e pensa di condurre la sua battaglia «fino al 2023». Eppure sono proprio questa sindrome da accerchiamento e questa ostinazione che i nostri politici maturano ogni qualvolta che scoppia uno scandalo ad essere fuori luogo. Diciamolo con chiarezza. Governare oggi in Italia, soprattutto a livello locale, significa implicitamente avere a che fare con un sistema di rapporti di forza modellati da un capitalismo basato sulle rendite di posizione, e quindi per definizione connesso con la politica. Per invertire la rotta bisognerebbe dunque guardare alla struttura dei rapporti economici che governano la nostra democrazia, influire proprio sul sistema di governo e di rappresentanza di certi interessi; bisognerebbe fare un discorso quasi rivoluzionario, tant’è la portata dei cambianti occorrenti. E’ qui che giace la grande responsabilità politica del riformismo miope o peloso, che dir si voglia, di gran parte degli esponenti Pd, anche di quella sinistra interna cui tutti guardano e che però non è esente da colpe nella deriva di questo partito. Pur coscienti di trovarsi in un partito che governa in questo preciso contesto storico-sociale, pur eletti nelle liste di una struttura ormai pienamente afflitta da quella questione morale che ne avrebbe dovuto rappresentare una virtù e che invece l’avvicina al paradigma delle destre, paiono cader dalle nuvole ogni volta che scoppia uno scandalo.

Non sarebbe più intellettualmente onesto prendere atto della gravità della situazione e fare della legalità uno strumento di lotta politica e di vero contrasto ai privilegi? Certo, qualcuno dirà che Marino almeno in parte l’ha fatto. Eppure questo non può bastare, perché il sindaco è pagato anche per assumersi delle responsabilità politiche e di governo che inevitabilmente finiscono per pesare come macigni in una città che rischia un commissariamento. Il primo cittadino, bravo o cattivo che sia, in un contesto del genere non può che essere il primo a pagare in termini politici ed un atto di responsabilità e di chiarezza dovrebbe essere ciò che la cittadinanza dovrebbe pretendere. E a poco serve appellarsi ad un garantismo fuori luogo (la speranza è che comunque tutti gli indagati vengano assolti), né parlare di «colpo di stato» in caso di vittoria delle destre alle prossime elezioni. E’ vero, le alternative sono Renzi, Grillo, le destre (prime queste ultime ad essere colpite dalle indagini, non dimentichiamolo) e il classico populismo strisciante che grida per non cambiare nulla. Ma dell’immaturità dell’elettorato italiano si potrebbero scrivere fiumi di parole, del resto la politica e il sistema economico sono in un certo senso espressione della società.

Photo Credit: https://commons.wikimedia.org

Fonte: OltremediaNews

martedì 23 giugno 2015

Turismo sessuale, italiani al primo posto


Sono così piccole da non raggiungere in altezza l’anca dei predatori che se le vanno a comprare nei bordelli, e poi le stuprano, e prima trattano il prezzo parlando quasi sempre lingue occidentali, e 80.000 volte all’anno in media la lingua è l’italiano. Sono così leggere che a prenderle in braccio pesano poco più di un bebè. Sono così truccate che sembrano bimbe a Carnevale. Sono così sottili che, se non fossero coperte di stracci succinti e colorati, indosserebbero le taglie più piccole degli abitini per bimbi occidentali. Le stuprano, tra gli altri, certi italiani che a casa sembrano gente qualunque, gente a posto. Che mai e poi mai potreste riconoscerli dal modo di fare, dalla morfologia.

Figli, mariti, padri, lavoratori. E poi un aereo. E poi in vacanza al Sud del mondo. E poi diventano il demonio. Italiani, tra quelli che ”consumano” di più a Santo Domingo, in Colombia, in Brasile. Italiani, i primi pedofili del Kenya. Attivissimi, nell’olocausto che travolge 15.000 creature, il 30 per cento di tutte le bambine che vivono tra Malindi, Bombasa, Kalifi e Diani. Piccole schiave del sesso per turisti. In vendita a orario continuato, per mano, talvolta, dai loro genitori. In genere hanno tra i 14 e i 12 anni. Ma possono averne anche 9, anche 7, anche 5. Minuscoli bottini per turisti. Burattini di carne da manipolare a piacimento. Foto e filmati da portare a casa come souvenir. Costa quanto una buona cena o un’escursione. Puoi fare anche un pacchetto all inclusive: alloggio, vitto, viaggio, drink, preservativi e ragazze per un tot. Puoi cercare nei forum in Rete le occasioni, ci sono i siti apposta. Puoi scegliere tra ”20 mixt age prostitutes”, dalla prima infanzia in su. Puoi avere anche le vergini, mille euro in più. E poi torni da mamma, dai figli, dalla moglie, in ufficio. E poi bentornato, e quello che è successo chi lo sa?
L’allarme è dell’Ecpat, l’organizzazione che in 70 Paesi del mondo lotta da sempre contro lo sfruttamento sessuale dei bambini: sono sempre di più, i vacanzieri che vanno a caccia di cuccioli umani nei Paesi dove, per non morire di fame, si accetta ogni tortura. Sono un terzo dei tre milioni di turisti sessuali in tutto il mondo. Sempre più giovani, tra i 20 e i 40 anni. Sempre più depravati per scelta, e non per malattia. Solo il 5 per cento di loro, infatti, è un caso patologico. Gli altri, informa l’Ecpat, lo fanno per provare un’emozione nuova, in modo occasionale (60%), oppure abituale (35%).

Gerd Dani

Fonte: FREE ITALIA

Gli arresti contro il Calcio Catania

Il presidente, l'amministratore delegato e il direttore generale sono accusati di aver comprato alcune partite per far restare la squadra in Serie B

Pablo Cosentino e Antonio Pulvirenti. (Davide Anastasi/LaPresse)

I tre più importanti dirigenti della squadra di calcio del Catania – il presidente Antonio Pulvirenti, l’amministratore delegato Pablo Cosentino e il direttore generale Daniele Delli Carri – sono stati arrestati e sono indagati per frode sportiva, con l’accusa di aver comprato alcune partite dell’ultimo campionato di Serie B, la categoria del Catania, per evitarne la retrocessione in Lega Pro. I dirigenti del Calcio Catania sono agli arresti domiciliari. Le altre persone arrestate, scrivono i giornali, sono due procuratori sportivi e due agenti di scommesse sportive.

Chi è Antonio Pulvirenti
Antonio Pulvirenti è un imprenditore catanese, proprietario della catena di supermercati Fortè e già proprietario della compagnia aerea lowcost Windjet. È diventato proprietario e presidente del Calcio Catania nel 2004, portando la squadra alla promozione in Serie A nel 2006; il Catania è rimasto in Serie A fino al 2014, negli anni ha avuto calciatori e allenatori importanti come Diego Pablo Simeone, Sinisa Mihajlovic e Vincenzo Montella. Pulvirenti ha fatto sapere, tramite il suo avvocato Giovanni Grasso, di avere «massima fiducia nella magistratura» e ha detto di essere «certo di potere dimostrare la totale estraneità ai fatti»

Quali sarebbero le partite “comprate”
Durante l’ultima stagione in Serie B – in cui molti si aspettavano un immediato ritorno del Calcio Catania in Serie A – la squadra ha giocato male per gran parte dell’anno, soprattutto fuori casa: e ha evitato una nuova retrocessione in Lega Pro solo grazie ad alcuni buoni risultati ottenuti nelle ultime partite. Le partite considerate sospette dalla procura sono “almeno cinque, forse sei”: Varese-Catania (0-3), Catania-Trapani (4-1), Latina-Catania (1-2), Catania-Ternana (2-0), Catania-Livorno (1-1), forse anche Catania-Avellino (1-0), tutte partite giocate tra la fine di marzo e l’inizio di maggio del 2014. Grazie a questi risultati il Catania uscì dalla zone retrocessione della classifica e riuscì a non retrocedere.

Scrive Repubblica:

Il nome del Catania calcio era emerso già il 19 maggio scorso nell’ambito dell’inchiesta “Dirty Soccer” che portò all’arresto di 50 persone tra dirigenti sportivi, allenatori, giocatori, dirigenti e scommettitori italiani e stranieri che aveva truccato decine di partite del campionato di serie B. L’interesse dell’organizzazione criminale che combinava le partite si era rivolta anche all’incontro Catania-Crotone del 16 febbraio 2015. Alla vigilia dell’incontro uno dei principali protagonisti dell’organizzazione l’albanese Edmond Neriìjaku insieme ad un altro degli arrestati, Ercole De Nicola, si dicevano certi di “combinare” l’incontro Catania – Crotone al punto che Nerjaku investì 21 mila euro sulla vittoria del Catania. Le cose però non andarono come previsto e l’incontro si era concluso con un pareggio, 1-1.

Tra gli indagati ci sono anche i dirigenti e i calciatori di altre squadre di calcio, non solo di Serie B, scrive La Sicilia:

Pietro Lo Monaco, Fabrizio Ferrigno e Alessandro Failla, rispettivamente proprietario, direttore sportivo e amministratore delegato del Messina (finiti sotto inchiesta perché avrebbero comprato la partita Messina Ischia), e i calciatori Alessandro Bernardini (Livorno), Riccardo Chiamozzi (Varese), Luca Pagliarulo e Antonino Taibi (Trapani) e Matteo Bruscaggin (Latina).

Il presidente della Lega di Serie B, Andrea Abodi, ha detto: «La prima reazione è sicuramente un grande dolore, perché lavoriamo ogni giorno per rendere comunque credibile e per aumentare la reputazione del nostro contesto, quindi questa è una notizia che ci lascia sgomenti. Bisogna reagire immediatamente e continuare il nostro lavoro, l’impegno verrà ulteriormente moltiplicato. Mi auguro che le cose vengano chiarite, che si sappia la verità il prima possibile e che comunque, di fronte a certi fenomeni, la risposta in caso di conferma sia dura, e faccia capire che il nostro mondo non è disposto ad accettare nessun tipo di accomodamento o accordo che mortifichi il campo e il valore sportivo di una competizione». Pulvirenti ha detto di essere innocente.

Le intercettazioni



E ora cosa succede?
All’inchiesta della procura si affiancherà quella della giustizia sportiva, che dovrà prendere delle decisioni molto più in fretta: l’inizio del prossimo campionato di Serie B è fissato per il 21 agosto. L’indagine contro il Catania – e le altre squadre potenzialmente coinvolte – potrebbe scombinare parecchio la lista delle società partecipanti al torneo. Scrive Fulvio Bianchi su Repubblica:

Il rischio di illecito non è soltanto per il club siciliano di Pulvirenti ma anche per le società che avrebbero venduto le partite. Per quanto riguarda il Catania c’era stata una segnalazione di flussi anomali di scommesse da parte della Agenzia delle Entrate e la procura federale aveva aperto un fascicolo. A questo punto si pone il problema dei calendari e degli organici – a cascata dalla Serie B alla D passando per la Lega Pro – con un’estate rovente tra processi sportivi (da concludere entro agosto), problemi finanziari che potrebbero portare all’esclusione di altre squadre (il Parma è già fuori) e ripescaggi: non è escluso quindi che l’inizio dei campionati possa slittare. La B dovrebbe partire con gli anticipi di venerdì 21 agosto: Palazzi potrebbe rinunciare agli interrogatori (visto che molti sono ai domiciliari e si rifiutano di farsi sentire dalla giustizia sportiva) e procedere ai deferimenti solo con le carte che arrivano dalle varie Procure. Abodi si augura di partire regolarmente il 21 agosto, con 22 squadre non è semplice trovare le date. Ma il rischio c’è.

Fonte: Il Post