giovedì 30 aprile 2015

Che cos’è l’Expo e quanto è costata

Il cantiere dell’Expo alla fiera di Rho, Milano, il 24 aprile 2015. Matteo Valle, Getty Images

Cos’è l’Expo. L’esposizione universale o Expo si svolge ogni cinque anni e dura sei mesi. Non è una fiera, non ha carattere commerciale e dovrebbe servire a promuovere un tema d’interesse generale con particolare attenzione all’innovazione e alla tecnologia. Partecipano all’Expo i paesi e le organizzazioni che lo chiedono. Possono partecipare anche le aziende e le organizzazioni della società civile. La prima esposizione universale è stata quella di Londra nel 1851.

Expo 2015. Si terrà a Milano dal 1 maggio al 31 ottobre 2015. Il tema della manifestazione di quest’anno è il cibo, lo slogan “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Per la prima volta nella storia, i paesi partecipanti non saranno divisi con criteri geografici, ma per temi. Milano ha ospitato l’esposizione già nel 1906, l’evento aveva come tema i trasporti. Partecipano all’Expo 2015 145 paesi, tre organizzazioni internazionali (Nazioni Unite, Unione europea, Comunità caraibica) e 13 organizzazioni non governative. Sono stati costruiti 80 padiglioni su 110 ettari di terreno.

Biglietti. Il prezzo medio giornaliero dei biglietti è di 32 euro. Ma le tariffe variano a seconda delle fasce d’età e della modalità di entrata.

Quanto è costata l’Expo? L’economista Roberto Perotti, nel suo libro Perché l’Expo è un grande errore (2014), ha stimato che l’evento dovrebbe costare 14 miliardi di euro. Solo per la costruzione dei padiglioni l’investimento iniziale è stato di 3,2 miliardi di euro.

Gli scandali dell’Expo. L’esposizione di Milano è stata oggetto di diverse indagini della magistratura. A ottobre del 2014 l’ex responsabile del padiglione Italia Antonio Acerbo è stato arrestato con l’accusa di corruzione e turbativa d’asta nella gestione dell’appalto per il Progetto via delle acque. Inoltre a febbraio del 2015 la polizia ha acquisito alcuni documenti nella sede di Expo spa nell’ambito di una nuova inchiesta per turbativa d’asta. Le indagini riguardano quattro appalti, tra i quali i lavori per le cosiddette vie d’acqua (un percorso ad anello attraverso vie d’acqua e piste ciclabili che costeggiano il centro della città) e la riqualificazione della Darsena (l’intera porzione a ovest del Naviglio grande).

Il No Expo. Nella settimana d’inaugurazione dell’evento a Milano centri sociali e movimenti hanno organizzato una serie di manifestazioni e di azioni dimostrative per protestare contro lo spreco di denaro pubblico e l’inutilità dell’Expo 2015. In concomitanza con il primo maggio, inoltre, le associazioni e i movimenti che hanno aderito alla piattaforma No Expo manifestano contro la precarietà e lo sfruttamento dei lavoratori più giovani nei cantieri dell’esposizione.

Fonte: Internazionale

mercoledì 29 aprile 2015

Bufale e giornali, quando i clic sostituiscono la serietà

Le notizie false girano sul web ad una velocità impressionante. Anche colpa dei giornali online. Che non verificano e non rettificano


Ricordate quando sono stati ritrovati in Messico i corpi degli studenti rapiti in una fossa comune? E la notizia della donna che si è fatta impiantare il terzo seno? O la più recente notizia dell’abolizione del bollo per l’auto? Per non parlare delle arance infettate con Aids e quella della bambina malata ibernata in attesa di nuove cure? Beh, se ve le ricordate forse non sapete che tutte e tre queste notizie che sono circolate in rete tra lo scorso autunno e questa primavera hanno un unico comun denominatore: sono false.

Bufale, un tanto al chilo. È il prezzo del web. Se è vero che la rete consente a tutti di esprimere il proprio pensiero ad una sempre più ampia platea, è altrettanto vero che c’è un maggior rischio che notizie non verificate o certamente false passino da schermo a schermo e da tastiera a tastiera, diventando “vere”. Talvolta è colpa dell’ingenuità di chi scrivere, molto più spesso la creazione di bufale (e il loro effetto virale sui social network e sui giornali online) fruttano agli inventori e ai giornali che li riprendono svariate migliaia di euro di ritorno pubblicitario. E non mancano poi le bufale create ad arte come quelle prodotte da regimi autoritari. La Russia, per esempio, è uno dei paesi che maggiormente utilizza la propaganda via web per far passare una certa e predeterminata visione della situazione in Ucraina. Tra i fake più clamorosi quella foto satellitare che ritrarrebbe il volo civile abbattuto sui cieli ucraini da un Mig di Kiev. Peccato che la foto sia un clamoroso falso che ha girato sul web ad una velocità impressionante, diventando per molti, anche grazie alle cosiddette “pagine” di contro-informazione, “verità accertate” e “prove inconfutabili”.

Un libro per riflettere. Craig Silverman, giornalista canadese esperto di bufale sul web, ha scritto un interessante libro “Bugie, bugie virali e giornalismo” (tradotto in italiano e distribuito gratuitamente in ebook da il Post), un ottimo manuale per chi produce informazione ma importante compendio anche per chi sulla rete si informa, per conoscere i meccanismi che stanno dietro ad una bufala: propaganda politica, interessi pubblicitari o fake per colpire aziende concorrenti. Lo potete scaricare qui.

La rettifica, questa sconosciuta. Silverman spiega come i giornali online spesso non verificano notizie false e, anche quando la bufala è conclamata, raramente rettificano la notizia. Quasi mai vengono corretti i primi articoli, ma vengono – semmai – scritti dei nuovi per specificare meglio la notizia o per chiedere venia ai propri lettori. In questo modo, però, la bufala rimane online e continua a girare per mesi, se non – addirittura – per anni. Così, l’industria del falso si alimenta da sé: produce guadagni ai creatori del fake (o un ritorno non necessariamente economico) e ai giornali che l’hanno ripresa, e genera caos informativo sui social network dove è sempre più difficile distinguere le notizie vere da quelle false. E non aiuta nemmeno più autorevolezza della testata che la riporta. Anzi, una buona fascia degli utenti di internet è più propensa a credere ad un blog sconosciuto che ad un giornale storicamente affermato.

Razzisti, narcisi e Lercio. Il fenomeno è mondiale e non interessa solo l’Italia. Nel nostro Paese esistono siti di propaganda politica (soprattutto di estrema destra e filo-Putin) che pubblicano notizie false o inesatte soprattutto contro immigrati, politici e personaggi famosi. A farne le spese, proprio in questi giorni, è Gianni Morandi che aveva difeso i migranti e per questo “colpito” sul web con una foto bufale di una sua presunta villa (“Dove può ospitare gli immigrati”), che poi si è scoperto sia un ospizio. Ci sono poi i creatori di bufale che potremmo definire “narcisi”. È il caso di Ermes Maiolica, già scovato dalla trasmissione Le Iene qualche mese fa, che firma tutte le bufale che fa girare sul web. E non mancano nemmeno i siti satirici come l’oramai noto “Lercio”. In realtà, questo è un sito di satira che produce bufale per irridere il mondo dell’informazione. Il problema è che ci sono ancora giornali che prendono Lercio come fonte attendibile pur essendo chiaro l’intento provocatorio.

Fonte: Diritto di critica

martedì 28 aprile 2015

Terremoto in Nepal, le ultime notizie

Oltre 5mila persone sono morte, ci sono più di 8mila feriti e danni enormi nella capitale Katmandu e in molte altre città più piccole del paese: le foto


Il terremoto in Nepal ha causato la morte di almeno 5mila persone – secondo le stime più recenti del governo nepalese – e ha interessato almeno 8 milioni di persone stando alle stime diffuse dalle Nazioni Unite: di queste, almeno 1,4 milioni hanno bisogno di aiuti per quanto riguarda cibo, acqua e medicinali. Mentre si cerca di dare aiuto e soccorso alle centinaia di migliaia di nepalesi rimasti senza casa, le autorità locali continuano ad aggiornare le loro stime su morti e feriti a causa del terremoto di magnitudo 7.8 di sabato 25 aprile: secondo i calcoli più recenti le persone rimaste ferite nei crolli degli edifici sono più di 8mila. Da sabato si sono verificate numerose altre scosse di terremoto, di magnitudo inferiore a 7.8, ma comunque forti a sufficienza da essere avvertite dalla popolazione e causare nuovi danni soprattutto alle strutture rimaste pericolanti dopo la prima scossa.

L’estensione e l’entità dei danni inizia a essere chiara per l’area della capitale Katmandu, dove si sono concentrate le prime operazioni di soccorso e dove è meno complicato muoversi e comunicare, mentre ci sono notizie ancora parziali dalle città più piccole e dalle aree rurali dove ci sono strade e comunicazioni interrotte da diversi giorni. Le prime stime parlano di grandi danni soprattutto per gli allevatori, che in molti casi hanno perso il bestiame nei crolli delle stalle, realizzate in modo precario e con materiali economici. Ci sono state inoltre centinaia di frane nelle aree collinari e montuose, cosa che sta complicando ulteriormente l’arrivo dei soccorsi.

Per affrontare l’emergenza del terremoto in Nepal sono stati allestiti diversi campi di soccorso, nei quali accogliere le migliaia di persone rimaste senza una casa, o che non si fidano a tornare nelle loro abitazioni perché danneggiate dalle scosse. Cina, India, Stati Uniti e molti paesi europei hanno inviato squadre di soccorso e aiuti, ma al momento ci sono problemi nel coordinamento e nella suddivisione delle risorse quando arrivano in Nepal. Ieri quattro aeroplani dell’Aeronautica indiana sono dovuti tornare indietro perché l’aeroporto di Katmandu non aveva gli spazi per accoglierli.

Sul monte Everest, dove una serie di valanghe causate dal terremoto ha ucciso 18 persone in uno dei campi base, è stato allestito un piano di recupero via elicottero delle circa 200 persone rimaste bloccate sulla montagna. Le operazioni hanno permesso di recuperare più di 60 persone ieri e sono ancora in corso le altre attività per mettere al sicuro il resto degli alpinisti. Lunedì sera il ministero degli Esteri dell’Italia ha annunciato che 4 italiani sono morti a causa del terremoto in Nepal nella zona di Langtang. Ha inoltre spiegato che “risultano irreperibili 40 cittadini italiani”, mentre fino a ora sono stati rintracciati circa 300 italiani che si trovavano nelle aree più interessate dal terremoto.

Fonte: Il Post

lunedì 27 aprile 2015

La scuola più degradata d’Italia

Si trova a Piedimonte Matese, in provincia di Caserta. L'edificio, che accoglie 360 allievi, ha i soffitti bucati per far uscire l'acqua piovana ed evitare il crollo del tetto


Ha il soffito bucato con il trapano per evitare che il tetto crolli, per far uscire l’acqua che s’infiltra quando piove. Parliamo dell’Istituto Tecnico Industriale Giovanni Caso di Piedimonte Matese, in provincia di Caserta, considerata la scuola più degradata d’Italia. da quando è stato collocato all’ultimo posto nella classifica contenuta nel XII Rapporto di Cittadinanza su sicurezza, qualità ed accessibilità negli edifici scolastici.


(Immagine de La Stampa)

L’istituto accoglie ben 360 allievi e ha bisogno di secchi strategicamente posizionati in aule e corridoi per raccogliere l’acqua che scorre dall’alto in caso di pioggia. Ne parla oggi La Stampa con un reportage dell’inviata Flavia Amabile:

Non c’erano alternative, e in questa scuola lo sanno: qui la sicurezza degli edifici è materia di studio, i ragazzi si iscrivono in tanti per imparare che cosa c’è dentro un muro, quello che si deve fare per renderlo indistruttibile, ma anche che cosa accade se in una parete per anni si infiltra dell’acqua. «L’acqua gonfia le pareti, ossida l’acciaio del cemento armato e indebolisce la struttura finché l’edificio crolla», spiega Giovanni Della Paolera, insegnante e addetto alla prevenzione e protezione dell’istituto.

Una situazione imbarazzante in cui ha avuto un ruolo anche la burocrazia. Scrive ancora Amabile su La Stampa:

Il cancello, ad esempio. Da anni non ha una serratura. Ogni sera l’ultimo ad uscire chiude con una catena, tagliarla non è difficile, entrare a rubare nemmeno. «Perché non c’è serratura? L’istituto è di proprietà della Provincia: da anni, nonostante le segnalazioni, il problema è ancora qui», risponde Della Paolera. Hanno provato a risolverlo loro, creando un’apertura elettrica. «È perfettamente a norma ma, se nessuno viene a collaudarla, non possiamo metterla in funzione», spiega l’insegnante. E, quindi, apertura a mano, chiusura con catena e rischi annessi.

E in fondo il problema del cancello sarebbe uno dei minori. All’Istituto Caso di Piedimonte Matese si fa lezione con una discarica di pezzi di copertura in giardino e i vetri del laboratorio rotti. E la luce alla fine del tunnel nemmeno d’intravede. Un progetto di finanziamento prevedeva per la scuola 400 milioni di euro per rimettere a posto l’intera struttura. Fondi bloccati dopo il terremoto che nel 2013 ha colpito l’intera area.

(Foto di copertina di Flavia Amabile da La Stampa)

Fonte: Giornalettismo

domenica 26 aprile 2015

Terremoto in Nepal

Due scosse hanno colpito il centro del Paese. Alcuni edifici sono crollati nella capitale Kathmandu. Almeno 2.150 vittime

Operazioni di soccorso dopo il terremoto all'interno di un tempio nella piazza di Bashantapur Durbar, a Kathmandu, in Nepal, il 25 aprile 2015. Credit: Navesh Chitrakar

Un terremoto di magnitudo 7.9 ha colpito sabato 25 aprile un'area vicino alla città di Pokhara, in Nepal, causando la morte di più di 2.150 persone.

L'area si trova a 80 chilometri a est della città di Pokhara, nel centro del Nepal, non lontano dalla capitale Kathmandu.

La mattina di domenica 26 aprile una nuova scossa di assestamento di magnitudo 6.7 si è verificata nell'area tra Kathmandu e il monte Everest, causando ulteriori valanghe nella catena montuosa dell'Himalaya.

Le vittime accertate finora sono 2.157, di cui almeno 700 nella capitale Kathmandu, che ospita 1 milione di abitanti.

Complessivamente si contano oltre 5.000 feriti. Le valanghe sull'Everest hanno causato la morte di almeno 17 persone.

Fonti ministeriali hanno informato della presenza di oltre 1.000 escursionisti, inclusi circa 400 stranieri, che si trovavano nel campo base o sull’Everest, quando si è verificato il terremoto.

Nel terremoto sono rimaste uccise anche 49 persone in India settentrionale, 17 in Tibet e 4 in Bangladesh.

La scossa di assestamento di domenica mattina si è avvertita anche nella capitale indiana Nuova Delhi, causo l'oscillazione di alcuni edifici, e bloccando la metropolitana della città.

Il Nepal ha dichiarato lo stato d'emergenza nei distretti colpiti dal terremoto.

Il vice primo ministro nepalese Bamdev Gautam ha lanciato un appello chiedendo assistenza alla comunità internazionale.

L’India è stato il primo Paese a rispondere alle richieste di aiuto inviando 285 operatori di soccorso e alcuni aerei militari provvisti medicinali.

Anche la Cina ha inviato una squadra di primo soccorso. Gli Stati Uniti parteciperanno con un milione di dollari in aiuti.

È stato stimato che circa 300mila turisti stranieri si trovassero in varie zone del Nepal per la stagione della primavera, quella più adatta per le escursioni e le scalate sull'Himalaya. I funzionari hanno ricevuto molte telefonate da parte di parenti e amici.

Nella capitale nepalese sono crollati alcuni edifici, tra cui la Torre Dharara, monumento storico di nove piani risalente al diciannovesimo secolo e attrazione turistica.

Nella piazza di Bashantapur Durbar a Kathmandu, riconosciuta come patrimonio dell'umanità da parte dell'Unesco, un tempio è crollato e diverse persone sono state intrappolate al suo interno.

Nella valle di Kathmandu, l'area più densamente popolata intorno alla capitale, si stima siano morte almeno 634 persone.

La valle di Kathmandu è l'hub economico del Nepal, e qui risiedono la maggior parte degli uffici e dei quartier generali delle aziende e imprese.

Nella capitale Kathmandu molti edifici sono vecchi, non a norma e concentrati in uno spazio molto ristretto. 

L'epicentro della scossa è a soli 31 chilometri nel sottosuolo. Si tratta del sisma più forte che ha colpito il Paese dal 1934, quando in un terremoto morirono 8.500 persone.

Fonte: The Post Internazionale

sabato 25 aprile 2015

25 aprile, la festa della Liberazione


Oggi si festeggia la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo. Il 25 Aprile è l’anniversario della rivolta armata partigiana e popolare contro le truppe, ormai di occupazione, naziste e i loro fiancheggiatori fascisti della repubblica sociale italiana. Grazie al sangue versato dai partigiani fu possibile dare agli italiani la libertà che era stata negata durante il ventennio di dittatura fascista.

venerdì 24 aprile 2015

«Il blocco navale è irrealizzabile e illegale»

L’Unione Europea ha deciso di triplicare i fondi per “Triton”. L’alternativa proposta da Lega e centrodestra – il blocco navale – non è realistica

Giovanni Zagni

Una barca proveniente dalla Libia vicino a Sfax, sulla costa tunisina, 4 giugno 2011. (HAFIDH/AFP/Getty Images)

Che cosa fare per evitare una nuova strage di migranti nelle acque del Mediterraneo: mentre l’Europa decide di potenziare l’operazione già in corso, “Triton”, il dibattito ruota intorno ad alcune parole ripetute da diversi esponenti politici, in particolare il blocco navale.

Ma il blocco è un’operazione militare dai contorni molto precisi, dicono gli esperti, e al momento non c’è possibilità che venga messa in atto. Il diritto internazionale parla chiaro: senza un esplicito assenso della Libia e delle Nazioni Unite, mettere in pratica un blocco navale lungo le sue coste è un atto di guerra.

Certo non aiuta il fatto che in Libia, al momento, ci siano due governi diversi e in lotta: uno dei due, quello di Tripoli – non riconosciuto da gran parte dei paesi occidentali – ha già detto che non accetterà raid aerei contro le imbarcazioni dei trafficanti sulle sue coste, figurarsi uno schieramento di navi militari autorizzate ad usare la forza a poche miglia dalla riva.

Se poi guardiamo alla storia recente delle politiche messe in atto dal governo italiano (e non solo) in termini di azioni marittime, ci sono pochi precedenti confortanti: misure come il respingimento forzato sono risultate – e in altre parti del mondo risultano – in gravi violazioni dei diritti umani e condanne degli organismi internazionali, senza contare le tante tragedie che hanno causato in modo diretto o indiretto.

Che cosa si è deciso a Bruxelles

L’Europa non ha ancora deciso un chiaro cambiamento di politiche nel Mediterraneo. Giovedì 23 aprile si è tenuta a Bruxelles una riunione speciale del Consiglio europeo, l’organo che riunisce i capi di Stato e di governo dell’Unione, per discutere le misure da prendere per contrastare il traffico illegale dei migranti attraverso il Mediterraneo ed evitare una nuova tragedia come quella del 19 aprile scorso, in cui oltre 700 persone sono morte nel Canale di Sicilia.

Secondo quanto dichiarato dal presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, l’intesa di massima tra i 28 Paesi dell’Ue è stata raggiunta su alcuni punti fondamentali. Tra questi, gli stati europei hanno dato mandato all’Alta rappresentante per la politica estera Federica Mogherini di proporre azioni per «catturare e distruggere» le imbarcazioni utilizzate dai trafficanti «prima che queste vengano usate».

A Bruxelles si è deciso soprattutto di «triplicare le risorse» destinate all’operazione “Triton”, partita il 1° novembre dello scorso anno con mezzi fortemente ridotti rispetto alla precedente “Mare Nostrum”: attualmente “Triton” costa circa 2,9 milioni di euro al mese, contro i 9,5 di “Mare Nostrum”, e l’aumento riporterebbe quindi l’operazione attuale più o meno agli stessi livelli di finanziamento. I Paesi europei, ha detto Tusk, hanno promesso «molti più vascelli, aerei ed esperti».

Infine, si è deciso un programma pilota per il reinsediamento di alcune migliaia di richiedenti asilo (si parla di 5 mila posti per la prima fase) nei Paesi europei, che parteciperanno però «su base volontaria» (e il Regno Unito, in cui sono prossime le elezioni, si è ad esempio già chiamato fuori).

“Triton” è un’operazione di pattugliamento, che rimane a un raggio di 30 miglia nautiche dalle coste italiane. Non è un’operazione che blocca attivamente gli sbarchi e non ha i mezzi per soccorrere in modo efficace tutte le imbarcazioni in difficoltà tra Italia e Libia. Negli ultimi giorni, molti esponenti politici italiani hanno parlato anche di un altro tipo di azione che invece è presentata come risolutiva: il blocco navale.

Perché si parla di blocco navale

Il giorno prima della riunione di Bruxelles, la Camera dei deputati italiana ha approvato una risoluzione di maggioranza e un’altra presentata da Forza Italia. Le risoluzioni parlamentari hanno solo un generico valore d’indirizzo e non obbligano il governo, ma ha fatto notizia che in quella di Forza Italia si facesse riferimento agli articoli 41 e 42 dello Statuto delle Nazioni Unite, in cui si nominano, tra diverse misure possibili per contrastare «minacce alla pace», anche l’interruzione delle comunicazioni e i blocchi navali.

Nelle ore successive, diversi esponenti di Forza Italia – ad esempio Giovanni Toti e Mariastella Gelmini – hanno espresso il loro sostegno al blocco navale. Un’apertura a questa soluzione c’è stata anche da parte del presidente della commissione Esteri del Senato Pierferdinando Casini e del sottosegretario alla Difesa Gioacchino Alfano, che però ha specificato che dovrebbe essere effettuato dalle autorità locali e dalle organizzazioni internazionali.

Ma il più grande sponsor della misura è probabilmente il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, che negli ultimi giorni ha più volte detto che si tratta, a suo dire, dell’unica soluzione possibile al problema degli sbarchi.

Che cos’è il blocco navale?

L’ammiraglio Fabio Caffio, tra i massimi esperti delle questioni di diritto marittimo in Italia, è molto netto: «Credo che ci sia un equivoco terminologico che magari giova a qualcuno. Credo che nessuno si riferisca a un “blocco in mare” intendendo un respingimento coattivo, forzato. Nessuno che abbia un minimo di cognizione del diritto si può immaginare qualcosa del genere». Per questo, prosegue Caffio, «il blocco in mare è irrealizzabile e illegale».

Nel suo Glossario di diritto del mare, del 2007, Caffio spiega quali sono i termini della questione. Il blocco navale è «una classica misura di guerra volta a impedire l’entrata o l’uscita di qualsiasi nave dai porti di un belligerante». I precisi termini della sua applicazione sono definiti dalla consuetudine, visto che in materia non ci sono trattati internazionali, ma si tratta in sostanza di una grande forza aerea e navale che opera a ridosso del Paese che subisce il blocco e che è pronta – anche con la forza – a impedire ogni arrivo o partenza dalle coste, attaccando ad esempio i mercantili che provano a forzarlo.

Il blocco deve essere formalmente dichiarato e notificato agli Stati coinvolti, riguarda le navi di qualsiasi nazionalità e tipo, compresi i mercantili, con l’unica eccezione dei beni di prima necessità e degli aiuti umanitari.

Lo Statuto delle Nazioni Unite citato nella risoluzione di Forza Italia, inoltre, stabilisce che può essere utilizzato solo nei casi di legittima difesa e in una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu del 1974 è compreso tra gli «atti di aggressione».

I blocchi negli ultimi anni

Un blocco navale vero e proprio è stato avviato anche molto di recente e il caso dà l’idea di quali siano i contesti in cui viene messo in pratica. All’interno dell’intervento militare in Yemen coordinato con diversi altri paesi arabi e sostenuto dagli Stati Uniti, l’Arabia Saudita ha annunciato il 30 marzo scorso un blocco navale delle coste del Paese vicino, cinque giorni dopo l’inizio di una campagna di bombardamenti contro i ribelli Houthi.

Dopo quattro settimane di attacchi aerei l’operazione è stata dichiarata conclusa il 21 aprile, ma il blocco navale continua. Nonostante gli Stati Uniti abbiano sette navi militari nella zona, non partecipano al blocco.

Un altro blocco navale è stato messo in pratica nel marzo 2011, durante l’operazione Nato “Unified Protector” contro il regime di Gheddafi: oltre alla pioggia di missili Tomahawk su obiettivi libici e agli attacchi aerei, le navi militari hanno bloccato le navi rimanendo in acque internazionali.

Altri esempi recenti sono quelli di Israele: alle coste e ai porti del Libano nel luglio-settembre 2006, e da anni alla Striscia di Gaza, al largo della quale la marina israeliana blocca tutte le imbarcazioni – comprese quelle da pesca – se si spingono oltre le 6 miglia marittime dalla costa.

L’operazione di Israele è stata ripetutamente condannata dalle associazioni per i diritti umani, in particolare dopo che commando israeliani salirono a bordo della nave Mavi Marmara, di proprietà di una Ong turca e diretta verso la Striscia di Gaza, e uccisero nove attivisti che si opponevano all’attracco forzato nel porto israeliano di Ashdod per un’ispezione.

Il precedente italiano del 1997

Si parlò di blocco navale contro la Serbia anche nel 1999, durante l’operazione Nato in Kossovo, ma non se ne fece nulla per l’opposizione di Russia e Francia. E il Mediterraneo aveva visto un esempio di blocco – anche se sui generis – pochi anni prima, in un precedente poco fortunato citato a volte anche in queste ore.

Il 25 marzo 1997 il governo italiano di Romano Prodi e quello albanese di Sali Berisha strinsero un accordo a Roma con il quale l’Italia si impegnava – su formale richiesta albanese, il che non lo rende un blocco navale in senso proprio – a impiegare uomini e mezzi a ridosso delle coste albanesi e nelle acque internazionali del canale di Otranto per fermare l’afflusso di migranti verso le coste italiane.

L’operazione scattò già al momento della firma, senza aspettare i protocolli di applicazione (che sarebbero arrivati il 2 aprile); solo due giorni dopo, la motovedetta albanese Katër i Radës, carica di migranti, venne speronata in acque internazionali dalla nave italiana Sibilla: morirono 108 persone. Gli sbarchi, di fatto, non si fermarono, e l’operazione della Marina militare italiana proseguì ancora per qualche mese.

L’accordo con Gheddafi

Al di là dei blocchi navali in senso stretto e della loro fattibilità reale, c’è un altro precedente assai poco onorevole per l’Italia: nel 2009, il governo Berlusconi strinse un accordo con la Libia di Muammar Gheddafi per mettere in atto respingimenti forzati in mare.

A partire dal maggio di quell’anno, le barche vennero trainate di nuovo nei porti libici da cui erano partite dalle unità italiane, senza procedere a nessuna identificazione o valutazione di situazioni che avevano bisogno di assistenza. Non è molto diverso da quanto fa l’Australia dalla fine del 2013 con le barche che provano a raggiungere le sue coste settentrionali – un altro “modello” citato in questi giorni – anche se i flussi migratori sono molto meno ingenti e la situazione non piace ai vicini verso cui vengono trainate le navi né alle Nazioni Unite (senza contare il fatto che l’Australia spende per l’operazione il quadruplo di “Mare Nostrum”).

Quando venne stretto l’accordo con Gheddafi, l’allora ministro degli Interni Roberto Maroni, oggi governatore della Lombardia, parlò di «risultato storico» nel contrasto all’immigrazione clandestina. Le Nazioni Unite protestarono subito contro l’accordo, e presto emersero racconti drammatici – tra torture e maltrattamenti – delle condizioni in cui i libici tenevano i migranti riportati indietro, oltre 500 nel solo primo mese di respingimenti forzati.

Nel 2012, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato all’unanimità l’Italia per quella politica: violava il principio internazionale del non respingimento dei migranti e li portava, disse la Corte, in un paese che non garantiva il rispetto dei diritti umani (e che non ha mai ratificato le convenzioni internazionali sui migranti).

In attesa di sapere quali saranno le azioni proposte da Mogherini per distruggere i barconi là dove stanno – in territorio libico, con tutti i problemi giuridici che questo comporta – il dibattito politico italiano gira intorno a soluzioni che, nella storia recente, hanno una lunga serie di precedenti poco edificanti.

Fonte: Linkiesta.it

giovedì 23 aprile 2015

”Aiutiamoli a casa loro”, ma solo a parole: meno fondi per la Cooperazione internazionale


Il tormentone è sempre lo stesso e da più parti uguale: “Aiutiamoli a casa loro”. Quando si tratta di commentare eventuali soluzioni agli incessanti flussi migratori verso l’Europa, non è infrequente ascoltare questo slogan, divenuto ormai trasversale in Parlamento. Eppure, a fronte di tanti buoni propositi, a fare la differenza sono sempre i fondi stanziati per le azioni mirate a supportare governi e popolazioni nei Paesi più svantaggiati.

A differenza di quanto spesso viene dichiarato, infatti, i finanziamenti dedicati alla Cooperazione e ai progetti per “aiutarli a casa loro”, sono diminuiti. Una percentuale che non si discosta mai dallo 0 virgola e che al contrario scende. Dall’analisi degli ultimi dati pubblicati dall’Ocse risulta infatti che nel 2014 l’aiuto pubblico allo sviluppo italiano è sceso allo 0.16% del Pil dallo 0,17% del 2013.

Marco Simonelli, esperto della rete internazionale Action for Global Health, nei giorni scorsi ha dichiarato che “gli aiuti del canale bilaterale hanno visto un taglio di oltre 90 milioni di euro, solo parzialmente compensato da un incremento di quasi 30 milioni di euro donati attraverso il multilaterale”. E non fanno meglio neanche governi europei come Francia, Spagna e Portogallo o – oltreoceano – gli USA.

Curioso poi come la Farnesina abbia sostenuto di voler portare la percentuale di fondi per l’aiuto pubblico allo sviluppo allo 0,30% del Pil entro il 2018. In pratica raddoppiando la cifra attuale. Per tacer dei fantomatici tesoretti che questo comparto di attività difficilmente potrà vedersi assegnati.

In termini concreti e di supporto ai Paesi in via di sviluppo, meno fondi alla Cooperazione significano meno finanziamenti per arginare la cosiddetta immigrazione economica, meno incentivi per migliorare le condizioni sanitarie, alimentari e in generale di benessere delle popolazioni, maggiori difficoltà nel mettere in campo strategie condivise di coesistenza tra minoranze religiose e opposizioni politiche. E’ inevitabile, infatti, che peggiori condizioni di vita abbiano come conseguenza maggiori contrasti sociali.

Da noi, però, si continua a ripetere come un carryon lo slogan “aiutiamoli a casa loro”. Stando ai numeri, bisognerebbe cambiarlo in “aiùtati, che Dio ti aiuta”.

Fonte: Diritto di critica

mercoledì 22 aprile 2015

Che cos’è la Giornata della Terra

Il 22 aprile di ogni anno si svolge la più grande manifestazione del pianeta dedicata ai temi della protezione dell’ambiente


La Giornata della Terra (Earth Day in inglese), è la più grande manifestazione del pianeta dedicata ai temi della protezione dell’ambiente e Google le ha dedicato un quiz: fu indetta dalle Nazioni Unite dopo che nel 1970 un movimento ecologista negli Stati Uniti aveva deciso di fissarla per il 22 aprile. Si tratta di un momento celebrativo, ma anche educativo e informativo durante il quale i gruppi ecologisti di 192 paesi valutano le problematiche ambientali e propongono delle soluzioni.

L’idea di creare la Giornata della Terra venne per la prima volta negli Stati Uniti al senatore democratico Gaylord Nelson che pensò, negli anni Sessanta, di organizzare una serie di incontri e conferenze dedicate all’ambiente: ci riuscì, coinvolgendo anche molti importanti politici americani. Nel 1969 – quando tra gennaio e febbraio a Santa Barbara, in California, si verificò uno dei più gravi disastri ambientali degli Stati Uniti causato dalla fuoriuscita di petrolio da un pozzo della Union Oil – il senatore Nelson decise di occuparsi in modo più sistematico di questioni ambientali per portarle all’attenzione di più persone possibili, ispirandosi alla forza dei movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam.

Il 22 aprile del 1970, milioni di cittadini americani, varie organizzazioni che fino a quel momento si erano occupate di specifiche battaglie, migliaia di college e università aderirono a una grande manifestazione in tutti gli Stati Uniti dedicata alla salvaguardia del pianeta, una sorta di prima Giornata della Terra. Contemporaneamente venne creato l’Earth Day Network (EDN), un’organizzazione prima nazionale e poi internazionale per coordinare le diverse iniziative dedicate all’ambiente durante tutto l’anno (attualmente ne fanno parte oltre 22 mila movimenti e associazioni di 192 paesi).

Il 26 febbraio del 1971, l’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Maha Thray Sithu U Thant, ufficializzò la partecipazione dell’organizzazione alla celebrazione annuale dell’Earth Day. La Giornata della Terra contribuì in modo determinante allo svolgimento di iniziative ambientali in tutto il mondo che, nel 1992, portarono all’organizzazione a Rio de Janeiro del cosiddetto Summit della Terra (la Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite), la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente a cui parteciparono 172 paesi.

La Giornata della Terra 2015 – che è alla sua quarantacinquesima edizione – ha già raccolto più di 1,1 miliardi di azioni ambientaliste e impegni sottoscritti da cittadini di tutto il mondo. Il primo obiettivo di quest’anno sarà quello di piantare un miliardo di alberi o semi. In Italia, sono stati organizzati diversi eventi, che si possono trovare qui.

Fonte: Il Post

martedì 21 aprile 2015

Un secolo fa le vittime dei naufragi erano italiani emigranti in America

Tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento sette milioni e mezzo di nostri connazionali si imbarcarono su navi fatiscenti diretti in America. E molti pagarono con il sangue il sogno di una vita migliore

di Luca Rigamondi

Nel corso degli ultimi vent'anni il fenomeno dell'immigrazione di massa verso l'italia ha raggiunto dimensioni impressionanti, e impressionante è anche il tributo di sangue pagato nel viaggio verso l'"Eldorado Europa". Secondo Fortress Europe, osservatorio sulle vittime dell'immigrazione, tra il 1988 e il 2008 almeno 12.012 persone hanno perso la vita tentando di raggiungere clandestinamente il Vecchio Continente. E nel solo Canale di Sicilia i morti sono stati 2.511.


E se per tentare di arginare il fenomeno, oltre alle leggi come la Bossi-Fini e alle operazioni internazionali come Mare Nostrum, c'è chi propone di "aiutare i clandestini a casa loro", chi ha chiesto un blocco navale e chi ha addirittura proposto di cannoneggiare le carrette del mare che trasportano i migranti diretti in Italia, spesso ci si dimentica che un secolo fa erano proprio gli italiani a imbarcarsi sulle carrette del mare per raggiungere la "terra promessa", l'America. E oggi come allora, il viaggio verso il miraggio di una vita migliore si pagava con il sangue.

L'emigrazione di massa - Dal 1876 al 1915 furono ben 14 milioni gli italiani che, armati solo di speranza e di una valigia di cartone, lasciarono tutto per cercare fortuna altrove. E se per i primi 10 anni il viaggio era più semplice, perché la destinazione preferita era l'Europa, a partire dal 1886 gli italiani cominciarono a imbarcarsi per raggiungere l'America: nei quarant'anni dell'emigrazione di massa, 7 milioni e 600mila italiani attraversarono l'Atlantico diretti inizialmente in Argentina e poi anche in Brasile e Stati Uniti.

I vascelli della morte - La traversata avveniva, se possibile, in condizioni addirittura peggiori di quelle che oggi si riscontrano quotidianamente sulle barchette che partono dalla Libia dirette verso Lampedusa: secondo il Museo nazionale dell'emigrazione italiana, "al trasporto dei migranti sono assegnate le carrette del mare, con in media 23 anni di navigazione. Si tratta di piroscafi in disarmo, chiamati 'vascelli della morte', che non potevano contenere più di 700 persone, ma ne caricavano più di 1.000, che partivano senza la certezza di arrivare a destinazione".

I vascelli fantasma - Quando anche vi arrivavano, spesso parte della "merce" arrivava ormai senza vita a causa delle pessime condizioni igienico-sanitarie, trasformando la nave in quello che veniva definito "vascello fantasma": il Museo nazionale dell'emigrazione riporta come sul piroscafo "Città di Torino" nel novembre 1905 ci furono 45 morti su 600 imbarcati; sul "Matteo Brazzo" nel 1884 20 morti di colera su 1.333 passeggeri (la nave venne poi respinta a cannonate a Montevideo per il timore di contagio); sul "Carlo Raggio" 18 morti per fame nel 1888 e 206 morti di malattia nel 1894; sul "Cachar" 34 morti per fame e asfissia nel 1888; sul "Frisia" nel 1889 27 morti per asfissia e più di 300 malati; sul "Parà" nel 1889 34 morti di morbillo; sul "Remo" 96 morti per colera e difterite nel 1893; sull’"Andrea Doria" 159 morti su 1.317 emigranti nel 1894; sul "Vincenzo Florio" 20 morti sempre nel 1894.

Le tragedie del mare - Le pessime condizioni delle imbarcazioni utilizzate per trasportare la "tonnellata umana", come veniva chiamato il carico di emigranti, anche un secolo fa provocavano spesso sciagure come quella avvenuta al largo della Libia: 576 italiani (quasi tutti meridionali) morti il 17 marzo 1891 nel naufragio dell'"Utopia" davanti al porto di Gibilterra; 549 morti (moltissimi dei quali italiani) nella tragedia del "Bourgogne" al largo della Nuova Scozia il 4 luglio 1898; 550 emigrati italiani vittime, il 4 agosto 1906, del naufragio del "Sirio" in Spagna; 314 morti (secondo la conta ufficiale, ma per i brasiliani le vittime furono più di 600) nel naufragio della "Principessa Mafalda" il 25 ottobre 1927 al largo del Brasile.

Il naufragio della "Principessa Mafalda" - Proprio quella della "Principessa Mafalda" è la peggior sciagura che abbia mai colpito gli emigranti italiani. Varata il 22 ottobre 1908 ed entrata in servizio il 20 marzo 1909, era l'ammiraglia della flotta del Lloyd italiano (assorbito poi nel 1918 nella Navigazione Generale Italiana) e il più prestigioso piroscafo tricolore, invidiato dalle compagnie di navigazione del resto d'Europa sia per i lussuosissimi arredi della prima classe, sia per il salone delle feste esteso, per la prima volta nella storia della navigazione, in verticale su due ponti. E anche la terza classe era stata concepita in modo innovativo, con ampi stanzoni muniti di servizi igienici capaci di ospitare fino a 1.200 passeggeri, generalmente migranti. In occasione dell'ultimo viaggio prima del disarmo e dello smantellamento, la nave partì da Genova l'11 ottobre 1927 con a bordo 1.259 persone, tra le quali diversi migranti siriani ma soprattutto numerosi emigranti piemontesi, liguri e veneti. Il piroscafo, che secondo la società armatrice era in perfette condizioni, in realtà non era più considerato sicuro dagli addetti ai lavori dopo vent'anni di scarsa manutenzione e di usura. Tanto che, solo nel tratto di Mediterraneo verso Gibilterra, la nave subì 8 guasti ai motori, uno alla pompa di un aspiratore, uno all'asse dell'elica di sinistra, uno alle celle frigorifere.

Dopo una navigazione relativamente tranquilla nell'Atlantico, e nonostante il comandante, a causa di continue vibrazioni al motore di sinistra, avesse inutilmente chiesto alla compagnia di trasbordare i passeggeri su un altro transatlantico, il 25 ottobre la nave era a 80 miglia al largo della costa del Brasile, tra Salvador de Bahia e Rio de Janeiro. La "Principessa Mafalda" procedeva a velocità ridotta e visibilmente inclinata verso sinistra, quando alle 17.10 venne percepita una forte scossa: l'asse dell'elica sinistra si era sfilato e, continuando a ruotare per inerzia, aveva provocato un enorme squarcio nello scafo. E l'acqua, dopo aver allagato la sala macchine, invase anche la stiva poiché le porte stagne non funzionavano correttamente.

Lanciato l'SOS, le navi accorse si fermarono però a distanza temendo che la caldaia del piroscafo italiano potesse esplodere, e non fu possibile comunicare loro che il pericolo era stato scongiurato aprendo le valvole del vapore perché l'unico generatore di corrente presente a bordo era stato danneggiato dall'acqua impedendo così l'uso del telegrafo. Poco dopo le 22, quando la nave restò completamente al buio, a bordo scoppiò il panico: il capitano fece calare le scialuppe di salvataggio, ma a causa dell'inclinazione a sinistra quelle di dritta colpirono lo scafo andando in pezzi. Di quelle calate in mare, molte erano danneggiate e imbarcavano acqua; altre vennero prese d'assalto e si ribaltarono. Molti passeggeri si tuffarono cercando di raggiungere a nuoto le navi di soccorso, e alcuni di loro vennero divorati dagli squali; mentre altri si suicidarono, sparandosi pur di non morire annegati.

Secondo i dati ufficiali forniti dalle autorità italiane (le quali - si era in pieno regime fascista - minimizzarono il disastro, parlando inizialmente di poche decine di vittime solo tra l'equipaggio) i morti furono 314, ma i sudamericani diedero un numero di morti più che doppio, ben 657. Ancor oggi, però, non è chiaro quanti furono i migranti italiani che persero la vita a bordo del "Titanic italiano", una carretta del mare sulla quale si erano imbarcati sognando un futuro migliore.

Fonte: Tgcom24

lunedì 20 aprile 2015

700 morti nel canale di Sicilia. E la gente, sui social, esulta...




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"E’ anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità,...
Posted by Chiara Spano on Domenica 19 aprile 2015

domenica 19 aprile 2015

Ennesimo eccidio di migranti, proclamare lutto nazionale. La colpa è nostra


E' innegabile che in questa società, è la quantità a fare la differenza. Dieci, venti, ma anche un solo migrante morto, galleggiante sulle acque del mediterraneo, o sprofondato giù negli abissi, o sbranato da qualche squalo non frega a nessuno, non turba gli animi, non turba.

Vi è bisogno della quantità. E pare, per l'ennesima volta, essere pervenuta.
Quella giusta. Quella che turba la nostra quotidianità.

Dicono che non ci sono fondi.
Ma per opere milionarie, inutili, incompiute, e l'Italia di esempi ne è stracolma, ma non solo l'Italia, i soldi, quelli che arricchiscono i soliti noti, ci sono. Ci sono.

Dicono che non possiamo, da soli, fare fronte a questa problematica, emergenza ordinaria, che si deve intervenire a casa loro. L'Italia è frontiera, ed ha l'obbligo morale, etico, giuridico, di doversi attivare per salvare, aiutare, persone che fuggono da situazioni determinate da noi occidentali. Ed è giusto che da quelle situazioni possano fuggire. L'Italia si vanta di essere una delle grandi potenze economiche mondiali, a maggior ragione ha il dovere di aiutare, aiutare.

Scaricare le responsabilità sull'Europa è il classico processo di de-responsabilizzazione nostrano, così come dire, si deve intervenire a “casa loro” dopo averla noi devastata, è il tipico modo di ragionare, per non fare nulla, sussistente dai tempi nefasti del fascismo. Possibile che con tutti i servizi segreti esistenti, con tutte le tecnologie esistenti, non si riescono a monitorare per giusto tempo le partenze? Partono per cercare la salvezza, una nuova vita, una condizione migliore di vita, per quanto degradanti quelle che troveranno in Italia, queste, per loro, sono sempre una cosa migliore rispetto all'origine dalla quale fuggono.

Sono nostri morti queste persone, di cui non conosciamo il nome, nulla. In Italia siamo pieni di sacrari, di militi ignoti, di celebrazioni ed esaltazioni per chi è stato mandato a morire per conquistare fazzoletti di terra. In Italia siamo pieni di indifferenza per chi è stato ucciso dalla nostra indifferenza. Non sono eroi, non sono martiri, sono il nulla. Persone senza nome, cognome, età. Migranti ignoti.
Il nulla risucchiato da quel mediterraneo, diventato frontiera di morte, simbolo di quel razzismo moderno di cui non occidentali siamo fautori.

Ennesimo eccidio di migranti, e la responsabilità morale è anche di chi professa odio contro di loro. Proclamare il lutto nazionale è doveroso, coscienza forse lavata per un giorno, e poi?

Marco Barone

Fonte: AgoraVox Italia

sabato 18 aprile 2015

Cara Boldrini, la storia non si cancella


"Si dovrebbe cancellare la scritta 'Dux' dall'obelisco del Foro Italico a Roma". Lo ha detto il Presidente della Camera Laura Boldrini, al termine della cerimonia a Montecitorio per ricordare il 70° anniversario della Resistenza. L'obelisco in questione, che si trova davanti al Foro Italico, venne eretto nel 1932 e originariamente prese il nome da Benito Mussolini, a cui era dedicato. Sulla colonna, a caratteri cubitali è presente la scritta 'Mussolini Dux'.

Non sono d'accordo con questa dichiarazione della Boldrini. Premesso che non sono fascista, quell'obelisco rappresenta una testimonianza di un'epoca storica, il fascismo appunto. La storia non si cancella, bella o brutta che sia.

venerdì 17 aprile 2015

Un nuovo attentato di Boko Haram

Almeno 10 persone sono morte in un duplice attacco compiuto questa notte nel nord del Camerun


Alcuni miliziani del gruppo terrorista Boko Haram hanno ucciso almeno 10 persone in un duplice attacco compiuto questa notte in due villaggi situati nel nord del Camerun, secondo fonti militari riportate dall'agenzia Reuters.

Gli attacchi avrebbero avuto luogo nei villaggi di Bia e Blaberi, nella provincia settentrionale di Kolofata.

I miliziani sarebbero riusciti a varcare il confine con la Nigeria prima dell'arrivo dell'esercito camerunense.

Fonte: The Post Internazionale

giovedì 16 aprile 2015

I coriandoli e il perizoma


“Se indichi a un uomo un atto rivoluzionario, lui vedrà un perizoma. #Draghi“. E’ questo uno dei tweet che più mi ha colpito nella giornata di oggi, nel mare magnum di cinguettii seguiti all'”aggressione” ai danni del presidente della BCE, Mario Draghi. Un blitz condotto a colpi di coloratissimi coriandoli, con un solo difetto: quel perizoma nero che si è intravisto in una delle fotografie scattate a raffica durante l’azione. Già perché stato quello a finire su molte delle prime pagine dei giornali italiani come fermo immagine dell’aggressione, quel particolare che non ti aspetti da quella ragazza solare che ha lanciato manciate di coriandoli colorati a pioggia sul presidente della Banca Centrale Europea.

Lasciando da parte i commenti sulla sicurezza, letteralmente bucata da una giovane che per fortuna impugnava un’inoffensiva bustina di coriandoli e non un’arma, gli italici commentatori de noantri – sia su Twitter che su Facebook – si sono subito scatenati con battutine di vario genere su quel perizoma immortalato durante lo slancio verso il presidente della BCE. Come sempre: si guarda il dito e non la luna. La rivoluzione, invece, erano i coriandoli.

Dal punto di vista comunicativo, infatti, la scelta di lanciare su Mario Draghi un’intera busta di coriandoli colorati è stata quanto mai perfetta: il colore contrapposto al grigio, ai toni pacati e uniformi, all’austerity, alle conferenze stampa ingessate di un’Europa dei popoli troppo spesso distante dalle reali esigenze dei cittadini. E poi il dettaglio che a lanciare quella pioggia colorata e varia sia stata una ragazza sorridente, allegra, tanto che mentre la portavano via si è lasciata andare anche a un “uuuh!”: in un’epoca in cui a dominare attentati, stragi, decapitazioni e situazioni di tensione è il nero, anche questo è un modo nuovo di protestare. Come dire: giunta a pochi centimetri dal potere non scelgo la violenza, ma i colori, la beffa, la gioia. Nell’Europa prostrata – per tacer dell’Italia – che con difficoltà si sta rialzando da una crisi economica che ha falciato imprese e aziende, quanti avrebbero optato per questa forma di protesta? Eppure il messaggio è arrivato forte e chiaro: “No alla dittatura della BCE“, ha scandito più volte la ragazza. La stessa che, mentre la sicurezza la trascinava via, si è fatta fotografare sorridente.

A fare la differenza è stata quindi proprio la scelta dei coriandoli piuttosto che di un’arma, di “indossare” un sorriso a volto scoperto piuttosto che un passamontagna, della gioia piuttosto che della violenza. E anche il messaggio è arrivato non intaccato da strumentalizzazioni politiche contro questa o quella forma di violenza: “No alla dittatura della BCE”. Al di là dell’italico feticismo da perizoma.

Fonte: Diritto di critica

mercoledì 15 aprile 2015

Pizza o McDonalds? L’ironico contro-spot dei napoletani

I bambini preferiscono la "pizza a portafoglio": nel video del food blogger "Puok e med" l'ironica e tagliente risposta alla multinazionale americana del fast food.



"Papà, ma ch'amma fa cu' sta schifezza? Io voglje ‘a pizza!". Stavolta la risposta allo spot anti-pizza di McDonalds Italia è alla napoletana: ironica e tagliente. Sono i bambini in un video ideato da Egidio Cerrone, alias "Puok e med", giovane food-blogger partenopeo, a replicare alla multinazionale autrice della discusso spot pubblicitario in cui i bambini preferiscono il fast food alla pizzeria. Il video girato da Giuseppe Tuccillo con le musiche di Danjlo Turco ha già ottenuto un enorme successo su Facebook, con migliaia di condivisioni, like e commenti divertiti alle immagini di bambini dall'inconfondibile accento partenopeo che addentano tranci di pizza.

Nel video di "Puok e med" ad essere celebrata è la popolare "pizza a portafoglio", gustosa variante "mini" e da asporto della pizza margherita, venduta per lo più all'ora di pranzo dalle pizzerie e gustata in piedi, davanti al banco, nella caratteristica posizione "incurvata" per evitare che l'olio finisca sulla giacca. Anche questo è "fast food" sembra sottintendere il provocatorio video che dopo, l'incursione dei pizzaioli in una sede napoletana del colosso americano, allontana con una grassa risata il polverone polemico sollevato dal messaggio della campagna McDonald's.

Fonte: fanpage.it

martedì 14 aprile 2015

La mappa degli orrori della rete stradale italiana

I numeri dell'Ispra raccontano perché la rete italiana è un colabrodo


720 punti a rischio crollo e 6.180 punti di criticità. Sono i principali dati dell’Ispra, Istituto pubblico per la protezione dell’ambiente, ripresi in un articolo de La Stampa a firma Roberto Giovannini che descrive i rischi della rete stradale italiana:

L’ingegneria in Italia ha pensato di poter fare a meno della geologia. Per cui ancora oggi si continua a costruire case, ponti, strade, e quant’altro in luoghi dove acqua e natura si riprenderanno prima o poi ciò che è stato loro sottratto. Il risultato? Secondo una recentissima rilevazione dell’Ispra – l’Istituto pubblico per la protezione dell’ambiente – sulle principali infrastrutture di comunicazione (autostrade, superstrade, strade statali, tangenziali e raccordi) esistono la bellezza di 6.180 «punti di criticità» per fenomeni franosi. Soltanto sulle autostrade i punti in cui gli scienziati dicono che una frana potrebbe avvenire sono ben 720. 1.862 «punti di criticità» per frana sono stati invece individuati lungo i 16.000 chilometri della rete ferroviaria.

Non proprio tranquillizzanti sono anche i dati dell’Ispra che descrivono il fenomeno franoso in Italia nel suo complesso. L’osservatorio sulle frane dell’istituto, infatti, sostiene che solo nel 2014 sono stati 211 gli eventi franosi principali, quelli che hanno causato morti o feriti o evacuazioni e danni ad edifici, beni culturali o infrastrutture. Complessivamente sono state censite nel nostro paese finora ben 499.511 frane su un’area di 21.182 chilometri quadrati, pari al 7% del territorio nazionale.

(Foto di copertina da archivio Ansa)

Fonte: Giornalettismo

lunedì 13 aprile 2015

È morto lo scrittore tedesco Günter Grass

Lo ha annunciato la casa editrice Steidl. L’autore premio Nobel per la letteratura aveva 87 anni

Lo scrittore tedesco Günter Grass a Madrid nel 2007. Susana Vera, Reuters/Contrasto

Lo scrittore tedesco Günter Grass è morto in una clinica della città di Lubecca, nel nord della Germania. Lo ha annunciato la casa editrice Steidl. Aveva 87 anni.

Nato a Danzica il 16 ottobre del 1927, Grass a diciassette anni entra come volontario nelle Waffen SS. Catturato dagli statunitensi nel 1945, finisce in un campo di prigionia in Baviera. Queste esperienze saranno poi ricordate nell’autobiografia Sbucciando la cipolla (Einaudi), la cui uscita è stata preceduta da un’intervista al giornale Frankfurter Allgemeine Zeitung e da molte polemiche sulla sua militanza nel braccio militare delle forze armate naziste.

L’esordio avviene nel 1959 con il romanzo Il tamburo di latta, primo titolo della trilogia di Danzica, che comprende anche Gatto e topo e Anni di cani. All’attività di romanziere, Grass ha alternato la scrittura di poesie, saggi e testi teatrali. Nel 1999 riceve il premio Nobel per la letteratura. Il suo ultimo romanzo tradotto in italiano è Il passo del gambero.

Fonte: Internazionale

domenica 12 aprile 2015

Benvenuti in E-stonia

Nel paese con 1,3 milioni di abitanti e 1.100 wi-fi gratuiti: tra incubatori di startup, una nuova spiritualità e burocrazia digitale

Marco Dotti

Le porte della città di Tallinn, Estonia, 3 marzo 2015. (Jordan Mansfield/Getty Images)

Tartu, 11 aprile 2015 – Un milione e trecentoventimila abitanti. Mille e centoquaranta nodi gratuiti di connessione wi-fi, anche nelle foreste. Non male, per un Paese che ha più alberi che abitanti.

«Estonia is an e-country», si legge sulle brochure che informano come sia possibile per tutti – cittadini e non – chiedere un’identità digitale estone, abbattendo, soprattutto per le aziende, l’ultima frontiera della burocrazia 2.0: e-Business Register, e-Tax Board, e-School, e-Prescription e – dal 2005, prima nazione al mondo – voto digitale (I-voting) sono realtà, non chiacchiere da smart-fighetti da convegno. In cinque minuti, qui, hai la tua dichiarazione dei redditi, in diciotto registri la tua società.

Qui è nato Skype. Qui hanno sede alcuni importanti think tank legati alla cyber security. Qui, da alcuni mesi, dopo l’inasprirsi delle tensioni internazionali con la Russia di Putin, i caccia – perché l’Estonia è nella Nato – sorvolano il confine. Qui, l’indipendenza è stata proclamata nel 1990, ma riconquistata – dopo mezzo secolo di occupazione sovietica e quattro di occupazione nazista – solo nel 1991. Qui, la prima connessione Internet è avvenuta nel 1992, ma solo cinque anni dopo già il 97% delle scuole estoni aveva una connessione veloce, grazie alla strutturazione di una rete diffusa e particolarmente intelligente, che ha permesso un tasso di iperscolarizzazione (l’89% degli adulti, tra i 25 e i 64 anni, possiede un high-school degree).

Taaraismo o spiritualità digitale

Qui la vita, fuor di metafora, è sempre stata veramente dura – basta tentare l’approccio con una lingua misteriosa e dura, che sembra finlandese, ma non lo è (e non è nemmeno ugro-finnico, come si legge qua e là sul web). Qui è stato duro anche per i sovietici piegare la resistenza dei Fratelli della Foresta ( metsavennad), insorti baltici, à la Jünger, che si rifugiavano tra i boschi e agivano con tecniche di guerriglia. Una storiografia di parte li ha poi qualificati come filo-nazisti, ma le cose, in questa parte di mondo, sono sempre più radicali e al tempo stesso più complesse di come le possiamo credere.

Qui ci sono più cori che chiese, Arvo Pärt è una gloria nazionale, ma la religione non suscita particolare interesse se è vero che solo il 16% degli estoni dichiara di credere in Dio .

Già, ma quale “Dio”? Perché se una cosa è la confessione, altra – ben altra – è la spiritualità , anche quella da laboratorio: nel 1928, dieci anni dopo l’indipendenza, un gruppo di intellettuali “progressisti” formatisi in Germania fondò il Taarausk o fede taaraista, recuperando neopaganesimo e culti precristiani.

Oggi, il taaraismo si è mischiato alla new age dando vita a un interessante e ancora poco studiato fenomeno di spiritualità smaterializzata e di immanent transcendence. Qualcosa, in questa terra che dicono senza Dio, lega fortemente il senso religioso all’era della smaterializzazione e dell’accesso integrali. Digitale e naturale si legano, in forme spesso inaspettate.

Una teoria del tutto

A Tartu, la seconda città dell’Estonia – nemmeno centomila abitanti, sul fiume Emajõgi – ha sede una delle più importanti università della regione Baltica, la Tartu Ülikool o, in latino, Universitas Tartuensis. Qui ha insegnato, fondandovi la sua scuola, il semiologo Jurij Michajlovič Lotman. Alcuni milanesi ancora ricordano – ma erano altri tempi, per la nostra cultura – quando centinaia di persone si accalcavano nelle sale dell’Ambrosiana, per seguirne le lezioni. Lotman era di casa in Italia, in particolare a Pavia. A Lotman, tra i più influenti intellettuali europei del Secolo Breve, dobbiamo la nozione di semiosfera.

Per questo studioso incredibilmente attento ai sommovimenti locali-globali della cultura, nel nostro mondo «ad avere un ruolo primario non sarà allora questo o quel mattone, ma il grande sistema chiamato semiosfera. La semiosfera è quello spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile l’esistenza della semiosi». I segni si formano e ci informano in questo continuum. Fuori, impazziscono. Sono deliri, non segni.

Senza la semiosfera – osserva Lotman –, non vi sarebbe vita sociale, non vi sarebbero relazione o comunicazione. Non vi sarebbe realtà. La semiosfera è il nostro spazio vitale.

C’è un termine russo, byt, di cui si serve Lotman. Lo potremmo tradurre: “gesto o comportamento quotidiano”. Il concetto di byt – oggi più che mai al centro delle riflessioni semiotiche sulla web society – è parte della semiosfera ed è oggetto dei meccanismi di traduzione centro-periferia.

Scrive Lotman: «Byt è il consueto decorso della vita nelle sue forme reali e pratiche; byt sono le cose che ci circondano, le nostre abitudini, il nostro comportamento di ogni giorno. Il byt ci circonda come l’aria e, come dell’aria, ce ne accorgiamo solo quando manca, o quando è inquinata. Si trova sempre nella sfera pratica, è il mondo delle cose prima di tutto».

Il gioco, come l’aria

A Lotman dobbiamo anche alcune delle riflessioni più forti sul tema culturale del gioco. Riprendendo e piegando una sua intuizione inizialmente riferita al gioco delle carte (e alla rilettura di Puskin), potremmo chiederci come il gambling sia diventato, oggi più che mai, un modello universale per comprendere i meccanismi della finanziarizzazione, della smaterializzazione, della ludizzazione, dell’esistenza tutta.

Come è stato possibile che il gambling si sia posto al cuore stesso della mitologia biopolitica della nostra epoca? Difficile dare risposte. Ma in Estonia, più che altrove, anche in assenza di risposte, qualche domanda è lecito porsela.

Qui, infatti, dal 2010, per far fronte alla crisi che due anni prima si era abbattuta anche su questa porzione di mondo, il gambling online è stato legalizzato.

La legalizzazione ha dato il via a uno di quei processi di interrelazione globale-locale (qui, la semiosfera di Lotman c’entra eccome), che meriterebbero uno studio a sé. Il Paese, proprio grazie alla sua vocazione digitale, è diventato sede di operatori off-shore che vi hanno dislocato sedi operative e server.

L’Estonia è, oggi, uno dei principali centri globali di irradiazione dell’e-gambling, non tanto per ragioni fiscali (per quelle, bastano Gibilterra e Malta, che forniscono alle corporation vantaggiosissime zone franche), ma tecniche.

In Estonia – proprio a Tartu, dove è stata fondata nel 1999 – ha sede la Playtech, il più grande colosso globale di software per l’azzardo online, quotato al London Stock Exchange Main Market. Qui si sviluppano software e “soluzioni” innovative, che ne fanno uno dei centri tecnologici più importanti del Paese e, di conseguenza, dell’eurozona. Gambling e gaming, azzardo e gamification, ossia ludizzazione integrale di servizi e prodotti, si fondono in Estonia. Anche attraverso iniziative che, tra il milione e seicentomila visitatori che ogni anno arrivano nel Paese, attraggono più sviluppatori di software di qualsiasi Silicon Valley de noantri.

Negli ultimi anni, mentre in Italia era tutto un parlare di “incubatori” di start-up, in Estonia, con sovvenzioni del Fondo europeo di sviluppo regionale, hanno dato vita a GameFounders, il primo acceleratore di start-up incentrato unicamente su aziende e prodotti e app di gaming.

L’Estonia è così un ottimo prisma attraverso il quale scomporre la luce, altrimenti confusa, della nostra semiosfera. Con un’avvertenza, che ci viene ancora da Lotman.

Per descrivere il concetto di semiosfera, improntato a due concetti (noosfera e biosfera) di Vernadskij, e tornato di stringente attualità nel mondo digitale, Lotman riportava questo aneddoto: se prendiamo un vitello, possiamo ricavarne molte bistecche, ma se prendiamo molte bistecche non potremo mai ottenere un vitello. Anche col gioco, nelle sue dinamiche di gambling, gaming, sport o entertainment, sembra valere questa regola. Se la smaterializzazione delle relazioni umane attraverso una gamification – ossia la ludizzazione di ogni aspetto del byt o daily life– globale e integrale dell’esistenza attenga a un cumulo di bistecche o a un vitello è cosa che siamo ancora ben lontani dal comprendere.

Fonte: Linkiesta.it

sabato 11 aprile 2015

Fonderie Bastianelli: stop dal Tar Lazio


I lavori alle ex Fonderie Bastianelli, nel quartiere romano di San Lorenzo sono iniziati nel maggio del 2014, oggi arrivo lo stop del Tar del Lazio.

La vicenda della Bastianelli è stata sposata dai comitati di quartiere, i quali hanno combattuto (occupazione Communia) per evitare la conversione di un edificio storico in un edificio composto da miniappartamenti e da un parcheggio sotterraneo. Nel maggio scorso (video) i comitati sono usciti sconfitti da questa battaglia, ma oggi arriva la vittoria degli stessi, mai rassegnati.



La sentenza del Tar del Lazio accoglie sia il ricorso introduttivo sia il ricorso per motivi aggiunti, sotto numerosi profili, tra cui, molto interessante secondo l’avvocato Stefano Rossi, la carenza di istruttoria in ordine al mancato esame sulle ricadute e sull’impatto del progetto sul territorio.

Nella sentenza del Tar si specifica che sarebbe servito un nullaosta della Sovrintendenza comunale; nullaosta che risulta essere stato richiesto successivamente al permesso di costruire. Inoltre “l’amministrazione avrebbe dovuto procedere ad una disamina delle ricadute del progetto del tessuto urbano nel rispetto della conservazione storico culturale della città di Roma.”

La Libera Repubblica di San Lorenzo sostiene che la sentenza dimostra come la rigenerazione urbana non possa essere delegata ai desideri degli imprenditori e al loro bilancio economico, la sentenza dice che bisogna tener conto del tessuto urbano fatto di preesistenze e dell’abitare dei più, inoltre siamo solo all’inizio e questo è la dimostrazione di come la partecipazione promossa dall’amministrazione sia “acqua fresca” e non si può far coincidere gli interessi pubblici con quelli privati.

Ormai la Fonderia è stata intaccata nella sua storia, completamente abbattuta in quasi un anno di lavori che hanno destabilizzato la vita e gli edifici di chi vive vicino alle ex Fonderie e di un intero quartiere che ha visto sparire un pezzo della propria storia. Inoltre sono stati ritrovati reperti archeologici durante gli scavi.

Chi pagherà per questo scempio?

Sentenza Tar Lazio

Fonte: OltremediaNews

venerdì 10 aprile 2015

L’attentato di Milano, messo in ordine

Cosa è successo giovedì mattina nel Palazzo di Giustizia e chi è Claudio Giardello, l'uomo che ha sparato e ha ucciso tre persone


Giovedì 9 aprile intorno alle 11 del mattino un uomo – Claudio Giardiello – ha sparato 13 colpi di arma da fuoco dentro il Palazzo di Giustizia di Milano, uccidendo tre persone.

Cosa è successo
Claudio Giardiello è entrato poco dopo le 9 del mattino al Tribunale di Milano dall’ingresso di via Manara, molto probabilmente con un tesserino falso: questo gli avrebbe permesso di essere confuso per un avvocato ed evitare i controlli dei metal detector. Secondo la ricostruzione di Tommaso Buonanno, procuratore capo di Brescia, Giardiello ha agito “con premeditazione” (aveva con sè una pistola e due caricatori). Poco prima dell’inizio della sparatoria era seduto tra i banchi del pubblico in un’aula al terzo piano del Palazzo di Giustizia, nella seconda sezione penale. Poco prima delle undici, a udienza iniziata, ha estratto la pistola – una Beretta 98, che deteneva regolarmente – e ha ucciso l’avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani.

Successivamente, sempre in aula, Giardiello ha sparato anche a Giorgio Erba, che è morto in ospedale; ha sparato e ferito anche Davide Limongelli, suo nipote. Erba e Limongelli erano imputati nel suo stesso processo. Giardiello è poi uscito dall’aula scendendo le scale, dove ha incrociato e sparato al commercialista Stefano Verna che si era occupato di un suo procedimento. Arrivato al secondo piano del palazzo, è entrato nell’ufficio di Fernando Ciampi, giudice fallimentare: ha sparato di nuovo e lo ha ucciso mentre stava lavorando al computer.

Giardiello è riuscito a uscire dal palazzo da via Manara scappando con la sua moto per quasi 30 chilometri: è stato arrestato a Vimercate, città dove – stando a quanto ha detto il ministro degli Interni Angelino Alfano – era pronto a uccidere altre persone. Giardiello è stato interrogato dai carabinieri in caserma e poi portato in ambulanza in ospedale per un malore.

Nel frattempo
Subito dopo i primi spari, diverse persone hanno cominciato a scappare e a uscire per le strade. Il palazzo ha cominciato a essere evacuato, ma almeno una trentina di persone sono rimaste a lungo chiuse nell’aula al terzo piano del Tribunale dove si è verificata la sparatoria. Per diverso tempo dopo gli spari si è pensato erroneamente che Giardiello potesse trovarsi ancora dentro l’edificio.

Le persone uccise
Le tre persone uccise sono il giudice fallimentare Fernando Ciampi, 71 anni, citato come teste al processo in cui era coinvolto Giardiello e che aveva emesso una sentenza per il fallimento di una sua società. Ciampi era stato presidente dell’ottava sezione civile; da sei anni era alla seconda sezione civile, incaricata dei fallimenti. L’avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani, 37 anni, era un ex avvocato di Giardiello: si trovava in aula per testimoniare nella causa di bancarotta a carico di Giardiello stesso. Giorgio Erba, 60 anni, era co-imputato nel processo di Giardiello.

I feriti sono l’ex commercialista di Giardiello Stefano Verna e Davide Limongelli, 40 anni, nipote di Giardiello, anch’egli co-imputato nel suo stesso processo, che dopo essere stato sottoposto a un intervento durato oltre cinque ore al Niguarda è in prognosi riservata.

Chi è Claudio Giardiello
Claudio Giardiello ha 57 anni, è nato a Benevento ed è residente in Brianza, a Brugherio: lavorava nell’edilizia ed era imputato in un processo per fallimento della Magenta Srl, società immobiliare di cui lui era socio di maggioranza. Il bilancio della Magenta era in passivo di quasi 3 milioni di euro. Claudio Giardiello era indagato per truffa dal marzo 2014 dalla Procura di Monza. Si era fatto rilasciare una fideiussione di 258 mila euro dal Credito artigiano a nome dell’ex moglie Anna falsificando la firma. Giardiello era stato socio della «Edil casa», che non esiste più dal 1998; era stato il proprietario della «Claudio Giardiello», cessata nel 1989 e aveva avuto una partecipazione del 20 per cento nell’«immobiliare Leonardo», in fallimento dal 2012. Il Sole 24 Ore ha raccontato i suoi guai giudiziari:

È stata dichiarata fallita il 13 marzo del 2008 la Immobiliare Magenta, la società a responsabilità limitata di Claudio Giardiello, l’uomo che ha sparato oggi al Tribunale di Milano. L’azienda, si evince da una visura camerale, faceva capo per il 55% a Giardiello, per il 30% a Davide Limongelli, nipote di Giardiello, coimputato e rimasto ferito nella sparatoria. Un terzo socio con il 15% si chiama Giovanni Scarpa. Il curatore fallimentare nominato dal Tribunale si chiama Walter Marazzani. Nel novembre del 2006 era stato depositato un atto di sequestro delle quote di partecipazione di Limongelli e di Scarpa, mentre nel giugno e nel novembre del 2007 erano stati depositati atti di sequestro delle quote di Giardiello. Il curatore fallimentare della società è Walter Marazzani, nominato nel 2008.

Passivi totali per 2,8 milioni di euro di cui quasi un milione verso le banche e 250mila euro verso l’erario. È questa la situazione finanziaria della società. L’immobiliare, con sede a Milano, è fallita nel 2008 ma dai documenti della sezione fallimentare del Tribunale di Milano – consultati da Radiocor – è possibile ricostruire la situazione finanziaria a tutto il 2014. Del totale dei debiti, pari a 2,88 milioni di euro, la quasi totalità è di natura chirografaria mentre i privilegiati sono pari a 361mila euro. Le disponibilità liquide, a disposizione del curatore fallimentare Walter Marazzani, ammontano a dicembre 2014 a circa 284mila euro anche dopo incassi legati alla vendita di immobili e a un incasso da 60mila euro in seguito a una transazione con Unicredit Leasing. Esclusi dalla procedura fallimentare risultano altre passività per circa 750mila euro.

Come è entrato
Non è ancora chiaro come sia stato possibile introdurre un’arma all’interno del tribunale: i quattro ingressi del Palazzo di giustizia di Milano (Via Freguglia, Via S.Barnaba, Via Manara e quello principale in Corso di Porta Vittoria) sono sorvegliati dal personale di una società di vigilanza privata. Per accedere è necessario svuotare le tasche dagli oggetti metallici e oltrepassare un metal detector: il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha confermato che tutti i sistemi di sorveglianza tecnologici del Palazzo di Giustizia erano funzionanti.


All’interno del Palazzo, oltre agli addetti alla sorveglianza, sono in servizio anche alcuni carabinieri che presidiano l’edificio nei vari piani. In aula la vigilanza è obbligatoria solo in presenza di imputati detenuti e non era il caso del processo a carico di Giardiello. In questo caso se ne occupano gli agenti della polizia penitenziaria a volte in collaborazione con i carabinieri. I controlli possono però essere evitati dall’ingresso di via Manara se si è in possesso di un tesserino da avvocato o da dipendente del tribunale: il procuratore Bruti Liberati ha detto che Giardiello potrebbe essere entrato al palazzo mostrando un falso tesserino dalla porta riservata ad avvocati, magistrati e cronisti: per ora, ha specificato Bruti Liberati, si tratta però solo di un’ipotesi.

Fonte: Il Post