martedì 3 febbraio 2015

Spunti per un'analisi sul terrorismo islamico


In considerazione del fatto che negli ultimi giorni siamo diventati, oltre che difensori della libertà di espressione, esperti di islamismo e di complottismo, io che ho il vizio o, per meglio dire, l’accortezza di leggere qualcosa prima di parlare, ho deciso di prendere parte al discussione sviluppata dai neo analisti italiani. Purtroppo il dibattito sulla natura offensiva o satirica delle vignette lo lascio a coloro i quali ieri si indignavano per le gesta delle Femen [1] e oggi definiscono libertà di espressione i disegni di Charlie Hebdo, insomma decidetevi. Innanzitutto premetto che le pseudo analisi che mi accingo a sviluppare sono per l’appunto pseudo- analisi, dato che non ho le competenze e le conoscenze adatte per descrivere fenomeni talmente complessi che provare a descriverli costituisce ardua impresa. Iniziamo dapprima sulla presunta natura violenta dell’islam.

Vi è qualche problema che può derivare dalla religione musulmana? Sicuramente si. Come religione anch’essa è, legittimamente, circondata da un’aurea di sacralità e ogni elemento definito “ sacro” e quindi dogmatico può diventare qualcosa di estremamente pericoloso . D’altronde la stessa parola Islam deriva da slm che significa “ essere sicuro” o, per meglio dire, “ affidare”, “ rimettere qualcosa al giudizio di qualcuno” e nell’accezione religiosa indica “ concreta e attiva sottomissione alla volontà di Dio”. Ma fin qui nulla di strano. Quello che, invece, desta maggiore perplessità, per non dire vera e propria preoccupazione, è la sovrapposizione tra politica e religione. Nelle società arabe e mediorientali non vi è una netta distinzione tra queste due sfere. La stessa sharīʿa, che sarebbe “ la via retta che conduce a un luogo dove dissetarsi”, comprende Ibadat e mu’ amalat. Con il primo termine si indicano le pratiche di preghiera, mentre con il secondo termine si ci riferisce agli atti della vita sociale. Le mu’amalat sono state applicate al diritto e alla procedure penali, al diritto amministrativo e a quello bellico[2]. Figuratevi che quello che inquietò maggiormente gli studiosi della corte dell’impero ottomano, inviati dal sultano a studiare la rivoluzione francese, non furono i concetti di uguaglianza e fraternità considerati già patrimonio dell’Islam, ma il concetto di libertà individuale sganciato dal contesto religioso. Una vera e propria fitna, cioè una sfida all’ordine esistente. Leggendo qualcosa sulla storia del mondo arabo questa sovrapposizione è evidente.

Prendiamo per esempio l’Arabia Saudita . Quest’ultima è figlia di un movimento fondamentalista islamico della penisola arabica del XVIII secolo: il wahhabismo. In poche parole nel 1744 Mohammed ibn al- Saud strinse un patto di azione con al – Wahhb ( fondatore del wahhabismo): gli Al- Saud si impegnavano a lanciare un jihad per conquistare al verbo wahhabita l’intera penisola e gli wahhabiti, in cambio benedicevano e legittimavano la loro permanenza al potere[3].

Prendiamo per esempio la sconfitta degli eserciti arabi nella guerra del 1967 contro Israele fu – per così dire- interpretata come la punizione che Dio aveva voluto infliggere a quei musulmani che avevano osato umiliare l’Islam ponendolo sotto il controllo dello stato secolarizzato[4].

Il fatto è che il nazionalismo, il marxismo, il liberalismo e la stessa democrazia sono tutte ideologie occidentali e di conseguenza interpretate come un’imposizione “coloniale”. Nel mondo arabo l’ideologia è stata sostituta dalla religione la quale si è fatta ideologia . Emblematica è in questo senso la rivoluzione iraniana nel 1979. L’unicità di questa rivoluzione sta nel fatto di aver unito classi sociali diverse, mobilitate da un’ideologia islamica interpretata come comune denominatore. Questo comune denominatore vedeva l’Islam non come perdente, ma rivoluzionario , contestatario e dunque politico.

Tornado alle perplessità un altro aspetto da prendere in considerazione è, almeno per i cristiani, il fatto che nella dottrina islamica non è prevista l’intermediazione tra Dio e il credente, non vi è infatti un’autorità religiosa come la Chiesa Cattolica di Roma e questo ha avuto delle conseguenze nell’interpretazione dei versetti del Corano, compresi quelli che islamofobi e non sono soliti riportare nei social network per giustificare il presunto carattere violento dell’Islam.

Quante volte abbiamo letto il termine jihad ? e quanti di noi sanno esattamente cosa significhi? Sebbene per noi occidentali il termine jihad sta a significare “ guerra santa”, nessun studioso dell’islam è riuscito a scoprire il motivo per cui tale termine va reso così. D’altra parte Jihad deriva dalla radice jhd che indica “ sforzarsi”, “ applicarsi con zelo”. E’ una lotta sì, ma una lotta anche contro se stessi, contro le tentazioni e via dicendo. La jihad inoltre è un’arma difensiva, ma come ogni pratica e precetto dell’islam , anche questo termine è stato interpretato in diversi sensi. Il pensatore radicale egiziano considerato il principale ideologo del moderno radicalismo islamico sunnita ,Sayyid Qutb, ha dato una lettura più offensiva del termine sopra citato[5]. Occorre fornire al lettore una breve ricognizione del pensiero di Qutb. Per quest’ultimo il mondo arabo della metà degli anni 50 di questo secolo è paragonato alla jahiliyyah, cioè al periodo dell’ “ ignoranza “ pre- islamica, cioè quello precedente alla rivelazione della parola divina a Maometto. Come il profeta e i suoi compagni avevano combattuto contro il paganesimo e l’idolatria, riuscendo ad edificare uno Stato Islamico in cui la sovranità risiedeva in Dio, così Qtub teorizza la guerra contro l’ordine costituito. Infatti “obiettivo della jihad è attaccare gli ostacoli materiali quali il potere politico che poggia su un complesso di strutture interconnesse di tipo ideologico, razziale, classista sociale ed economico che sono responsabili del perpetuarsi dell’oppressione”[6]. Ancora una volta è facilmente intuibile la sovrapposizione tra politica e religione: rivendicazioni politiche ma lette in chiave religiosa. Non solo, ma le idee di Qtub si svilupparono proprio dopo la sconfitta militare del 1967 di cui parlavo prima.

Questa sovrapposizione si riflette anche nelle organizzazioni terroristiche islamiche. Infatti come scrive lo storico Franco Cardini “ la logica dello jihadismo che è un’ideologia ha una lontana origine religiosa e in realtà, è un’ideologia di tipo politico”. Occorre in via preliminare di approssimazione precisare che è un grossolano errore definire tutti ” terroristici islamici”, non perchè non lo siano, ma per il semplice motivo che tale definizione, come sottolinea James Burke, rischia di mettere in ombra l’importanza delle circostanze locali nell’evoluzione di ciascun gruppo e l’obiettivo da essi perseguito. Prendiamo per la Lashkar Jihad indonesiana o la Jaish-e-mohammed pakistana. Esse sono definite organizzazioni terroristiche islamiche, ma fanno leva su rivendicazioni locali e non mi risulta che abbiano mai attaccato l’Occidente e probabilmente non hanno intenzione di farlo in futuro. Al contrario di Al Queida, l’ Isis, almeno per il momento, non ha alcuna intenzione di fare la guerra all’ occidente. La stessa scelta di autodefinirsi “ califatto” non è casuale ed evidenzia un modo diverso di interpretare lo jihadismo. Per anni i jihadisti hanno provato a ottenere un “paese proprio” e ora che lo hanno creato tocca mantenerlo e difenderlo. Questo non significa che una volta creato lo Stato i confini siano immobili. Anzi è l’esatto contrario. Mi spiego meglio. Quello che noi chiamiamo ISIS in arabo si chiama Dawla al-Islāmiyya e la parola Dawala, che noi traduciamo in Stato, in arabo significa anche “cambiamento”, termine che mal si adatta alla nostra idea di Stato come entità giuridica e politica sovrana costituita da un territorio con confini ben definiti e stabili. L’eliminazione dei confini sembra essere una vera e propria ossessione per i jihadisti dell’ Isis. Nel reportage “ Dentro L’ Isis”, i combattenti si dichiarano orgogliosi di aver cancellato la frontiera tra Iraq e Siria e di poter passare da un territorio all’altro “senza visto e senza passaporto”.

Ancora una volta si intuisce la diversità e complessità dell’estremismo islamico. Basti pensare per esempio che l’organizzazione Hamas ha come obiettivo la creazione di uno Stato Palestinese con confini ben precisi e stabiliti[7]. Quindi occorre fare attenzione prima di paragonare le centinaia di gruppi radicali islamici. 

Comunque sia i primi a essere intimoriti dell’avanzata dello Stato Islamico sono proprio gli stessi arabi. E probabilmente l’Occidente può trarre vantaggio da questo timore. Mi spiego meglio. Il nostro interlocutore futuro non può che essere il mondo arabo dove vi è in atto il vero scontro, primo tra tutti lo storico scontro Iran- Arabia Saudita. Paradossalmente l’ ISIS può riavvicinare i due paesi sopra citati. L’Arabia Saudita teme l’Isis per due motivi fondamentali. In primo luogo perché uno degli obiettivi dell’ Isis è quello di liberare i luoghi santi che stanno in Arabia Saudita e di conseguenza assegnare questi al governo di un califfo e in secondo luogo, l’ Isis, riprendendo le teorie di Qtub, definisce “ apostati” non solo gli ordini politici arabi moderni, ma anche quelle nazioni filo – occidentali come l’Arabia saudita. In secondo luogo l’Iran, baluardo dello sciismo duodecimano, non può permettersi di perdere un alleato come Al- Maliki, premier iracheno, come d’altra parte non può permettersi che il paese vicino di casa sia nelle mani di Al- Baghadi. Il riavvicinamento degli Usa all’Iran fa ovviamente irritare l’Arabia Saudita, ma quest’ultima alla fine si dovrà piegare agli interessi dell’America, anche perché , come scrivo, Ryad ha tutto l’interesse a bloccare l’avanzata dell’ Isis.

Ma se il pericolo di un scontro tra la civiltà sembra per il momento archiviato non è detto che esso non si presenti in futuro prossimo. L’occidente deve essere in grado di evitarlo, ma come ? Beh sicuramente senza ingaggiare una nuova guerra e questo non lo scrivo perché sono imbevuto di pacifismo senza se e senza ma , al contrario ritengo che la guerra ha, come scriveva Bull, delle sue funzioni[8]. L’ assoluta inutilità di una nuova guerra è stata comprovata dalle precedenti “guerre al terrore” le quali hanno dimostrato il loro fallimento. Anzi, la nascita dell’ Isis è una conseguenza della guerra al “ terrorismo”. Uno dei pochi che probabilmente ha capito bene la situazione è il sottosegretario agli Affari Esteri, Mario Giro. Quest’ultimo, dalle pagine della rivista di geopolitica Limes, scrive che “dobbiamo essere in grado di proporre al mondo sunnita una narrazione alternativa e più convincente”. Anche l’analisi del sottosegretario non è frutto di una concezione pacifista delle relazioni internazionali, ma si basa sulla ricerca dell’efficacia e su uno studio della realtà. La tesi proposta è semplice: “ ll nodo da affrontare è la “narrazione” che l’Is ha elaborato negli anni : un misto di recriminazioni storico-immaginarie, vere frustrazioni, false identificazioni, distorsione di miti occidentali . L’Is scommette sul sentimento di umiliazione dei sunniti arabi e prospetta loro una soluzione etnico-religiosa” e ancora “Per essere forti ci vuole un’idea, un’ideale, un’utopia da contrapporre all’Is, con forza e fiducia nei propri mezzi”[9].

Se la tesi è semplice, la sua attuazione non lo è. Non tanto per l’idea in sé, ma perché mancano, a mio avviso, uomini e donne che la possono attuare. Il sottosegretario infatti dimentica che la politica per sua stessa definizione è alla continua ricerca del consenso popolare il quale non può conciliarsi con una politica d’integrazione la quale non è togliere il crocifisso da un’aula scolastica ne tantomeno l’apertura di una moschea. Quello che manca non solo in Italia, ma in Europa è la presenza di Statisti i quali sappiano rispondere al caos che si sta generando con politiche impopolari, ma lungimiranti. L’assenza di statisti non è neanche compensata da una eventuale presenza della società civile la quale è intrappolata da una parte da una fastidiosissima retorica democratica la quale proibisce i presepi nelle scuole perché “ possono offendere i non credenti” e dall’altra parte da una paranoia imbarazzante che dichiara “ i bambini musulmani devono avere lo stesso menù nelle mense scolastiche” . Non penso che la nostra società è minacciata dalla richiesta di un menù che escluda la carne di maiale. Come d’altra parte accoglienza non vuol dire togliere il crocifisso dalle nostre aule. Piaccia o non piaccia è parte della nostra identità. L’Italia, a differenza della Francia che ha fatto del laicismo la propria religione, è un paese cattolico. E da non credente riconosco questa realtà. Accoglienza non è neanche ammassare centinaia e centinaia di immigrati nelle periferie, lontani , nascosti in modo tale che nessuno li debba vedere a parte i cittadini di quei quartieri, già disagiati per i fatti loro . Insomma il problema è complesso e non saranno le battute populistiche di Salvini a risolvere tale problema. 

Francesco Migliore

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[1] Cfr. Vaticano, le Femen rubano Gesù dal presepe, in www.ilgiornale.it

[2] Cfr. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi

[3] Cfr. Macella Emiliani, Medio Oriente, una storia dal 1918 al 1991, Editore Laterza

[4] Ibidem

[5] Cfr. Jason Burke, Al queida la vera storia, Feltrinelli.

[6] Ibidem

[7] Per approfondire, consulta “ Hamas” di Khaled Hroub, Bruno Mondadori.

[8] Cfr. Hedley Bull “ La società anarchica, l’ordine nella politica internazionale”

[9] Mario Giro , “La sfida che ci lancia lo Stato Islamico”, Limes, rivista di geopolitica.

Fonte: Il Malpaese

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