mercoledì 15 dicembre 2010

Ordinanze razziste senza fine

In nome di una maggiore sicurezza urbana, tra l’estate del 2008 e quella del 2009, sono state emesse nel nostro Paese una molteplicità di ordinanze comunali che, in gran parte, hanno teso a colpire particolari categorie di cittadini, per lo più immigrati. A darne la stura è stata l’approvazione dell’articolo 54 del decreto legislativo 267 del 2000 modificato dal d.l. 92/2008 e convertito in legge (125/2008), che ha attribuito ai sindaci nuovi poteri di ordinanza in qualità di ufficiali del Governo in materia di sicurezza urbana. Il decreto Maroni del 5 agosto 2008 ha, successivamente, definito la “sicurezza urbana” un “bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale” e identificato 5 ambiti di intervento per i sindaci.

Anticipati da alcune ordinanze che hanno fatto da apripista, molti sindaci si sono sbizzarriti con la fantasia per rispondere alla percezione (più che alla concreta presenza) di insicurezza nei propri cittadini. Da qui le ordinanze contro i lavavetri, di contrasto alla prostituzione, di divieto o ostacolo alla apertura di esercizi commerciali come le rivendite di kebab, contro l’uso religioso del velo (burka) da parte delle donne di fede mussulmana, di ostacolo alla iscrizione di immigrati all’ufficio anagrafico comunale e così via. Il tutto per contrastare degrado urbano, insicurezza dei cittadini, decoro urbano ecc.

In questo lasso di tempo ben 318 sindaci hanno firmato ordinanze in questo senso, per un totale di 508 provvedimenti, soprattutto in comuni medi e piccoli, anche se, vista la prevalenza di questo tipo di comuni nel nostro Paese, l’11% di ordinanze emesse dai grandi comuni evidenzia come anche i sindaci metropolitani si siano dati da fare per svolgere il “nuovo ruolo” di sceriffi incaricati dal Governo. Ad emettere il maggior numero di ordinanze è stata la Lombardia (141 in 81 comuni) ma sono state Emilia Romagna, Toscana e Veneto a coinvolgere il maggior numero di comuni (il 7,6% di comuni emiliano-romagnoli, il 7,7% toscani e l’8,6% veneti).

Tema maggiormente trattato la prostituzione, il contrato all’abuso di alcol, il vandalismo e l’accattonaggio domestico. La fregola per il contrato al degrato urbano e per il decoro la sicurezza urbana che ispira le ordinanze maschera solo parzialmente l’accanimento, spesso presente, verso gruppi sociali deboli o verso i comportamenti (a volte anche sfocianti in devianza) e la cultura degli immigrati. Il vero fulcro delle ordinanze è spesso propagandistico, dettato dalla ricerca di consenso più che di reale ricerca di soluzioni per le problematiche affrontate.

Sono curiose in questo senso le motivazioni legate alla sicurezza alimentare e alla difesa dei prodotti tipici locali che stanno alla base delle ordinanze volte a disincentivare con regole specifiche, quando non a proibire, l’apertura in determinate parti della città di esercizi di vendita di kebab. Se fossero credibili queste motivazioni perché, nelle stesse parti della città, non si è provveduto nello stesso modo nei confronti degli esercizi che vendono pizze, hamburger e la quantità di altri prodotti alimentari che nulla hanno a che fare con quelli tipici?

Altro caso evidente di discriminazione mirata è quella delle ordinanze contro l’uso del velo (burqa ma anche burquini utilizzati nelle spiagge o piscine) delle donne musulmane: una discriminazione alla libertà religiosa che trova la sua ragione, non tanto nelle motivazioni di sicurezza urbana nei confronti di persone travisate da un indumento che ne impedisce la identificazione, bensì nell’intolleranza culturale, religiosa e razzista.

Intrise dei germi intolleranti e razzisti, le ordinanze alimentano una visione della sicurezza urbana volta a sostenere una società chiusa, bigotta, rancorosa, nella quale le relazioni sociali aperte, lo scambio culturale, la solidarietà e la fiducia vengono meno e sono viste quasi come fattori di rischio. In questa visione a “tolleranza zero” della vita urbana la supposta migliore qualità della vita sarebbe data da quartieri e città “liberate” dai capannelli di persone nei giardini (non importa se dediti o meno a qualche attività illegale), dagli esercizi commerciali gestiti e frequentati prevalentemente da immigrati, dai poveri e dalle prostitute cacciati in parti meno esposte e abitate del territorio comunale o, meglio, “sbolognate” a comuni vicini, da graffettari e così via.

Una società della paura, dell’insicurezza sociale, meglio disposta a digerire propaganda e luoghi comuni elargiti a go-go attraverso invadenti ed invasivi messaggi e modelli televisivi che hanno contribuito a creare questo tipo di “domanda” nelle nostre città. Nel frattempo, ordinanze comunali sugli abusi, le speculazioni edilizie, il degrado e la distruzione del territorio, sull’inquinamento nelle città rimangono al palo, così come i provvedimenti di respiro generale del Governo in questo senso. Tutto questo paga meno in termini elettorali e, soprattutto, lede interessi forti e diffusi, alimentati da corruzione e illegalità amministrative e da sempre più evidenti collusioni di pezzi di amministrazione pubblica e potere politico con organizzazioni criminali.

Le sempre più frequenti inchieste giudiziarie in questo senso stanno a testimoniare che è sempre più necessario smascherare i meccanismi con cui si è costruito questo teatro dei luoghi comuni xenofobi e razzisti e, allo stesso tempo, agire nel concreto per ridare il giusto valore alle politiche sociali, volte veramente a migliorare la qualità della vita in questo Paese e con essa garantire quella sicurezza urbana di cui tanto si parla ma che nessuno sa ben definire.

Fonte: Terranews

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